La drammaticità della crisi sta esasperando i paradossi italiani. Il terremoto dell’Emilia rischia di spezzare il Paese in due, di colpire al cuore una delle comunità più laboriose e solidali, e il nostro dibattito pubblico cosa ci offre? Una furiosa polemica sulla parata del 2 giugno.
La crisi finanziaria torna a far tremare borse, banche e Stati, l’Europa continua a mostrarsi incapace di reagire con efficacia, e da noi che succede? Berlusconi strizza l’occhio a Montezemolo ritirando fuori l’elezione diretta del Capo dello Stato, in Parlamento le riforme istituzionali drammaticamente languono e a sinistra purtroppo il tema più alla moda è la lista civica (ovviamente, ognuno la intende a modo suo e con protagonisti diversi).
Intanto la crisi sociale si fa più profonda. La paura del futuro sta persino cambiando alcuni tratti antropologici. Il disorientamento produce malessere, logora le relazioni comunitarie, spinge ancor più all’individualismo. Soli nella moltitudine. In fondo, soli anche nella ribellione. Forse è un altro paradosso che oggi i sondaggi esaltino Grillo, con tutto il suo carico anti-sistema e anti-euro, quando solo poche settimane fa ci spiegavano che gli italiani stavano tutti con Monti, con i tecnici, con la politica «competente» (intendendo con ciò l’esecuzione di un mandato esterno). Ma può anche darsi che non sia un paradosso, che sia solo incapacità di comprendere quella connessione vitale tra l’impoverimento, l’invecchiamento, lo spaesamento e una politica che conta poco o nulla, che non è più capace di esprimere sovranità democratica.
Sostiene acutamente Giuseppe De Rita che la crisi della politica nasce anzitutto dalla nostra crescente condizione di sudditi. Da cittadini a sudditi di poteri finanziari che dettano le condizioni agli Stati senza passare dal voto. Non ci sarà riscatto della politica, e dunque delle comunità, se non spezzeremo queste catene. L’ideologia iper-democratica di Grillo – che pianifica la distruzione dei corpi intermedi – è tragicamente speculare al populismo di chi ha alimentato, per anni, il mito dell’unto del Signore. I corpi intermedi, tutti, compresi gli Stati nazionali di fronte alla globalizzazione, sono in affanno. Ma l’impresa è esattamente quella di ricostruire un nuovo tessuto di persone e comunità. Un ordinamento civile che abbia nell’Europa, finalmente, una solida pietra angolare, e che rilanci le dimensioni locali, associative, le autonomie sociali secondo principi di sussidiarietà.
Questa è la sfida. Questa è la ragione della politica oggi. Questo è l’orizzonte di ogni partito che intende assumere una dimensione nazionale, e perciò costruisce i necessari legami europei. Per meno di questo, è meglio rinunciare. Senza l’ambizione di cambiare le cose, la politica regredirà inesorabilmente nel piccolo cabotaggio, nell’autoreferenzialità, nel clientelismo, nella corruzione. Cambiare richiede coraggio. E selezione degli obiettivi. La ricostruzione in Emilia, ad esempio, non può non partire dal tessuto produttivo e sociale, scongiurando la delocalizzazione delle imprese, sostenendo da subito il lavoro: per fare questo, se necessario, vanno modificate le regole dei Patti di stabilità. È una necessità vitale. La politica deve imporsi. O subirà una sconfitta storica.
Ciò non vuol dire che bisogna tornare alla spesa pubblica fuori controllo. La politica non è spesa pubblica, come sostengono i liberisti. La politica però è inseparabile da un’idea di pubblico. Che richiami una sovranità più forte di quella del mercato. Le persone valgono di più. È proprio per questo che abbiamo bisogno di più Europa: stiamo vivendo un altro week-end di paura per l’euro e, ad ogni tornante, aumenta la percezione che è in gioco un pezzo della nostra stessa civiltà.
Le elezioni italiane sono all’orizzonte. Le amministrative hanno fatto salire la febbre. Nel centrosinistra cresce la paura di un nuovo ’93. Speriamo che nel confronto si riesca a dare priorità agli obiettivi del programma di governo piuttosto che alle modalità per configurare la rappresentanza politica. Il Pd è nato per questo. Per chiudere quella competizione politologica che negli anni Novanta ha tormentato l’Ulivo e poi spianato la strada alla vittoria berlusconiana. Ma c’è sempre qualcuno che vuole ricominciare daccapo. L’auspicio è che si fermi di fronte alla forza delle cose, alle sofferenze reali di tanti italiani, alla necessità vitale di cambiare il ricettario liberista con nuove politiche del lavoro e della crescita. Peraltro è più facile che venga da qui, e non da tatticismi, la spinta al necessario rinnovamento degli uomini.
La drammaticità della crisi sta esasperando i paradossi italiani. Il terremoto dell’Emilia rischia di spezzare il Paese in due, di colpire al cuore una delle comunità più laboriose e solidali, e il nostro dibattito pubblico cosa ci offre? Una furiosa polemica sulla parata del 2 giugno.
La crisi finanziaria torna a far tremare borse, banche e Stati, l’Europa continua a mostrarsi incapace di reagire con efficacia, e da noi che succede? Berlusconi strizza l’occhio a Montezemolo ritirando fuori l’elezione diretta del Capo dello Stato, in Parlamento le riforme istituzionali drammaticamente languono e a sinistra purtroppo il tema più alla moda è la lista civica (ovviamente, ognuno la intende a modo suo e con protagonisti diversi).
Intanto la crisi sociale si fa più profonda. La paura del futuro sta persino cambiando alcuni tratti antropologici. Il disorientamento produce malessere, logora le relazioni comunitarie, spinge ancor più all’individualismo. Soli nella moltitudine. In fondo, soli anche nella ribellione. Forse è un altro paradosso che oggi i sondaggi esaltino Grillo, con tutto il suo carico anti-sistema e anti-euro, quando solo poche settimane fa ci spiegavano che gli italiani stavano tutti con Monti, con i tecnici, con la politica «competente» (intendendo con ciò l’esecuzione di un mandato esterno). Ma può anche darsi che non sia un paradosso, che sia solo incapacità di comprendere quella connessione vitale tra l’impoverimento, l’invecchiamento, lo spaesamento e una politica che conta poco o nulla, che non è più capace di esprimere sovranità democratica.
Sostiene acutamente Giuseppe De Rita che la crisi della politica nasce anzitutto dalla nostra crescente condizione di sudditi. Da cittadini a sudditi di poteri finanziari che dettano le condizioni agli Stati senza passare dal voto. Non ci sarà riscatto della politica, e dunque delle comunità, se non spezzeremo queste catene. L’ideologia iper-democratica di Grillo – che pianifica la distruzione dei corpi intermedi – è tragicamente speculare al populismo di chi ha alimentato, per anni, il mito dell’unto del Signore. I corpi intermedi, tutti, compresi gli Stati nazionali di fronte alla globalizzazione, sono in affanno. Ma l’impresa è esattamente quella di ricostruire un nuovo tessuto di persone e comunità. Un ordinamento civile che abbia nell’Europa, finalmente, una solida pietra angolare, e che rilanci le dimensioni locali, associative, le autonomie sociali secondo principi di sussidiarietà.
Questa è la sfida. Questa è la ragione della politica oggi. Questo è l’orizzonte di ogni partito che intende assumere una dimensione nazionale, e perciò costruisce i necessari legami europei. Per meno di questo, è meglio rinunciare. Senza l’ambizione di cambiare le cose, la politica regredirà inesorabilmente nel piccolo cabotaggio, nell’autoreferenzialità, nel clientelismo, nella corruzione. Cambiare richiede coraggio. E selezione degli obiettivi. La ricostruzione in Emilia, ad esempio, non può non partire dal tessuto produttivo e sociale, scongiurando la delocalizzazione delle imprese, sostenendo da subito il lavoro: per fare questo, se necessario, vanno modificate le regole dei Patti di stabilità. È una necessità vitale. La politica deve imporsi. O subirà una sconfitta storica.
Ciò non vuol dire che bisogna tornare alla spesa pubblica fuori controllo. La politica non è spesa pubblica, come sostengono i liberisti. La politica però è inseparabile da un’idea di pubblico. Che richiami una sovranità più forte di quella del mercato. Le persone valgono di più. È proprio per questo che abbiamo bisogno di più Europa: stiamo vivendo un altro week-end di paura per l’euro e, ad ogni tornante, aumenta la percezione che è in gioco un pezzo della nostra stessa civiltà.
Le elezioni italiane sono all’orizzonte. Le amministrative hanno fatto salire la febbre. Nel centrosinistra cresce la paura di un nuovo ’93. Speriamo che nel confronto si riesca a dare priorità agli obiettivi del programma di governo piuttosto che alle modalità per configurare la rappresentanza politica. Il Pd è nato per questo. Per chiudere quella competizione politologica che negli anni Novanta ha tormentato l’Ulivo e poi spianato la strada alla vittoria berlusconiana. Ma c’è sempre qualcuno che vuole ricominciare daccapo. L’auspicio è che si fermi di fronte alla forza delle cose, alle sofferenze reali di tanti italiani, alla necessità vitale di cambiare il ricettario liberista con nuove politiche del lavoro e della crescita. Peraltro è più facile che venga da qui, e non da tatticismi, la spinta al necessario rinnovamento degli uomini.
L’Unità 03.06.12