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"Quel tempo immobile che ha spezzato il nostro tran-tran", di Wu Ming 1

Si vuole ripartire subito, ma sarà il caso di cambiare meta e percorso e scendere da questo treno iperveloce. I bimbi dopo la chiusura delle scuole giocano nei parchi senza sosta. Hanno riscoperto il loro spazio. Da quando è iniziato il terremoto in Emilia, i giornali e siti di informazione (soprattutto quelli locali) pubblicano foto di orologi. Le torri degli orologi di Finale Emilia, San Felice sul Panaro e Ferrara; l´orologio della chiesa di Sant´Agostino, quello della chiesa di San Rocco a Cento… Quadranti danneggiati, spaccati, scomparsi. Qualcuno è rimasto intatto ma fermo, a segnare l´ora della scossa che lo ha bloccato. Chi come me vive a Bologna non può non pensare all´orologio della stazione, fisso sulle 10: 25 dalla strage del 2 Agosto.
Perché un orologio fermo diventa notizia? Perché ne guardiamo la foto? Forse perché in essa cogliamo qualcosa, un lampo di verità su noi stessi.
L´Evento che lacera la quotidianità si esprime per metafore. Come gli insorti della Comune di Parigi secondo Walter Benjamin, il terremoto ha «sparato sugli orologi». Non solo: ha causato il tracollo della rete telefonica mobile. Quale messaggio dovremmo cogliere?
Se chiedi a un bambino di disegnare una casa, disegnerà quasi sempre una villetta monofamiliare, anche se vive in un trilocale al decimo piano o in un brefotrofio. In modo analogo, il terremoto ha colpito gli orologi di torri e campanili, benché da tempo non siano più quelli a scandire la nostra giornata. L´odierna forma-orologio è onnipresente, incorporata in ogni nostro dispositivo: computer, tablet, telefonino, furbofono, cruscotto di auto «intelligente»… Oggi, almeno in Occidente, sappiamo tutti e sempre che ora è. Non era mai accaduto che la maggioranza dei membri di una società si percepisse e rappresentasse in ogni momento dentro un tempo scandito e strutturato. Bifo dice che il telefonino è una catena di montaggio mobile, dalla quale non puoi staccarti. Al tempo stesso, sei cronometrista della tua prestazione.
È forte la tentazione di maledire il sisma, descriverlo come «demone», «mostro», entità ostile. «Siamo in guerra con la terra», ha gridato a tutta pagina un quotidiano emiliano, ma non è la terra il nemico. È forse colpa della terra se viviamo, costruiamo, abitiamo, lavoriamo, obbediamo in un certo modo? A uccidere non è il sisma, ma la realtà su cui il sisma getta luce. A uccidere è l´illusione che si possa tornare subito al tran tran di prima, ai ritmi forsennati di prima. La spinta a ripristinare la «normalità» (la parola più ripetuta nelle interviste) è costata altre vite: le aziende non hanno atteso le verifiche e gli operai sono tornati a lavorare in capannoni a rischio, con le conseguenze che sappiamo. Dunque, l´unica «normalità» già ripristinata è quella dei morti sul lavoro per mancanza di sicurezza, delle famiglie devastate, dei figli rimasti orfani perché la macchina non poteva fermarsi.
Spesso, nelle città, i movimenti sociali rivendicano «spazi», ma avere spazi non cambia nulla se non si contestano i tempi. Ti riappropri degli spazi quando i tempi saltano e riprendi fiato, grazie allo zoccolo scagliato negli ingranaggi. È tragico che a gettare lo zoccolo sia stato un terremoto, ma la tragedia non deve ottenebrarci, renderci ciechi di fronte agli esempi.
Un amico mi racconta che, dopo l´ordinanza di chiusura delle scuole, i parchi del suo paese si sono riempiti di bande di bambini che giocano ad libitum. Non accadeva da anni, nemmeno nei giorni festivi. Oggi i bambini – anche in provincia – vivono «imbozzolati» in tempi infernali, con giornate piene di scadenze e impegni incastrati meticolosamente: scuola, piscina, lezione di questo e quello, catechismo… I pochi, interstiziali momenti di far-niente li passano davanti a uno schermo. L´Evento ha interrotto la sequela e fatto riscoprire uno spazio, lo spazio dei giochi per eccellenza.
In diversi stati, gli edifici delle università sono aperti anche di notte, a disposizione degli studenti. In Italia no, ma ci ha pensato l´Evento. La facoltà di Architettura di Ferrara è rimasta aperta di notte, per accogliere chi preferiva dormire fuori casa. Fino a trent´anni fa, quell´edificio di via della Ghiara ospitava un manicomio, grande macchina disciplinare, luogo di costrizione fisica e totale eterodirezione dei tempi.
Mentre scrivo, nelle province emiliane colpite dal sisma (Modena, Ferrara e Bologna) le scuole sono ancora chiuse e c´è chi propone di dichiarare terminato l´anno scolastico. Le scosse potrebbero susseguirsi per mesi, si capisce che la vita sarà diversa. Molti operai si rifiutano di rientrare nei capannoni. «La vita vale più dell´economia», ha dichiarato un dirigente della Fiom. È la frase più eretica che oggi si possa dire, ma la routine già incalza e preme, e presto tornerà a imporsi.
Il tran tran è astuto: si ammanta di straordinario, si traveste da finta discontinuità. Si pensi al «minuto di silenzio»: rituale rapido e innocuo, conferma che l´ordine regna e può permettersi di sprecare un minuto… al termine del quale approfitterà del momento, pigiando sull´acceleratore di strozzanti controriforme e imponendo la sua shock economy.
È vero, vogliamo «ripartire» (il verbo più usato nelle interviste). Tuttavia, sarà il caso di cambiare meta e percorso, saltando giù da questo treno iperveloce. Chiediamoci: questa velocità dove ci porta? «Lavorare con lentezza, chi è veloce si fa male», cantava Enzo Del Re. Chiediamoci, soprattutto: questa velocità a chi conviene? «Un ladro più veloce ruba meglio, e un fesso più veloce non diventa meno fesso», diceva Amadeo Bordiga.
Il tran tran si riaffermerà. Intanto, approfittiamo dell´Evento per respirare, pensare, prepararci a lottare.

La Repubblica 02.06.12

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“Nella tendopoli con arabi e sikh l´ultima scommessa multietnica”, di Michele Smargiassi

“Niente tonno! Voglio il wurstel!” Ma un campo profughi non è un ristorante. I cinesi sono quasi tutti scomparsi, i tunisini a centinaia ritornano nel loro Paese. “Niente tonno! Voglio il wurstel!”. Ma la mensa di un campo profughi non è un ristorante, i cuochi fanno miracoli ma il menù non è infinito. «Voi cucinate solo cose che piacciono a quegli arabi!», gran pugno sul tavolo, le voci si alzano, poi qualcuno interviene, l´inizio di zuffa è sedato. «Poi quel signore si è pentito e ha offerto da bere», conclude il racconto Egidio Pellagatti, toscano, responsabile del campo Costa di Mirandola, affidato all´Anpas. «Ma se non stiamo attenti, ogni cosa è un pretesto». Per scongiurare la guerra etnoreligiosa del wurstel contro il tonno, del ragù contro le melanzane, ci vogliono doti che non facevano parte del bagaglio dei volontari della protezione civile, non prima di questo terremoto d´Emilia, il primo terremoto multietnico nella storia d´Italia.
L´Emilia è già una terra multicolore, e non da oggi. Qui a Mirandola la quota di immigrati è del 16%, ma ci sono comuni dove si sfiora il 20. Se poi conti solo i lavoratori, siamo già a un quarto del totale. Che tre dei dodici operai morti sotto le macerie fossero stranieri non è caso, ma crudele statistica. In più, il terremoto ha un suo modo di ribaltare le cifre, come ribalta le pareti. E adesso, nelle tendopoli di tela azzurra che hanno rimpiazzato i paesi rosso mattone, gli italiani sono finiti in minoranza. Anche in estrema minoranza, come qui al Costa, dove su trecento accampati solo ventotto hanno il passaporto tricolore. C´è una spiegazione, anzi più d´una. Negli edifici vecchi del centro storico ora devastato, più di una casa su tre era abitata da extracomunitari. Aggiungi che «gli stranieri non hanno legami affettivi con le loro case in affitto, non hanno problemi a lasciarle, e non hanno parenti che li accolgono», spiega Domiziano Battaglia, coordinatore dei campi per il comune, «così sono stati i primi, subito dopo il terremoto del 20, a rifugiarsi in massa nelle tendopoli».
Così, quando sono arrivati anche gli italiani stremati dalla seconda botta di martedì, hanno trovato campi già popolati da stranieri. «Avete dato la precedenza a loro!», gridavano giorni fa davanti al municipio da campo Ciro e Salvatore, fratelli di Acerra, che avevano dormito per una settimana in auto ai piedi della loro palazzina lesionata. La risposta in Comune è secca: «La regola è: entra chi è residente nel comune, noi non facciamo altre distinzioni». Ma certo bisogna evitare che le tendopoli diventino dei centri di prima accoglienza impropri. Tutti i campi ora hanno un pass, la Caritas controlla che non vengano forniti aiuti doppi alle stesse persone, «e di notte facciamo le ronde perché c´è sempre qualcuno che prova a scavalcare il recinto», ammette il volontario Antonio. È insomma una Italia multiculturale rovesciata, dai pesi ribaltati, quella che si è formata nelle tendopoli per una serie di eventi tragici e involontari. Ma a suo modo è un laboratorio, una prova da stress dei possibili scenari futuri della convivenza. Coi muri di cemento, il terremoto abbatte i muri invisibili che in una società complessa fanno da cuscinetto, tengono le distanze fra i gruppi e le culture. Niente porte blindate, niente quartieri separati nelle tendopoli. «Abbiamo tende da sei o da dieci letti e dobbiamo riempirle», spiega con la forza dell´evidenza Maria Zanot, coordinatrice del campo della regione Friuli. Ma quando hai una dozzina di nazionalità diverse, alcune ostili fra di loro, fare l´assegnazione dei posti è una specie di Risiko che richiede conoscenze geopolitiche non banali. «Che non devo mettere pachistani e indiani nella stessa tenda lo so già, ma potrò metterci sikh e islamici?».
Alcuni dilemmi si sono risolti da soli. I cinesi, seconda nazionalità per presenze, nei campi quasi non ci sono. «I cinesi sono spariti», ti dicono sorpresi i servizi anagrafe delle tendopoli. Non li trovi neanche in paese, nelle tende autogestite. Come se fossero svaniti assieme all´onda sismica. Probabilmente fuggiti altrove, in assoluto silenzio, in quel mistero che aleggia da sempre attorno alle loro correnti migratorie. I tunisini, invece, se ne vanno ufficialmente: il console in Italia è passato a offrire rimpatri gratuiti, e almeno trecento hanno già approfittato, «Domani parte una nave da Genova, andrei anch´io ma ho i documenti in questura che è crollata», racconta Edi, con stizza. Anche i consoli di Marocco e India hanno fatto offerte simili. I romeni sono partiti in pullman. Torneranno? Le fabbriche sono chiuse. Ma c´è da chiedersi se ci saranno abbastanza braccia per la frutta e la vendemmia, fra qualche mese. Le badanti dell´Est, invece, se ne stanno andando alla spicciolata, impaurite, magari con qualche scusa: «Sonja ha detto che le è morto uno zio, ma adesso come faccio con mia madre…», chiede aiuto disperata al desk comunale una signora, «proprio adesso…». Ma non bastano le fughe volontarie a riequilibrare la babele dei campi. A Cavezzo gli avvisi sono tutti in tre lingue, italiano arabo e hindi. Qui non ci sono tende, sono due campi da tennis coperti da una gran volta di legno e acciaio a prova di catastrofe. Una sola enorme camera da letto a trecento piazze. «Le famiglie marocchine, la sera della scossa grande, non volevano entrare, dicevano che le donne non possono dormire con gli uomini», racconta Francesco Gasperi detto Gas, 19 anni e pettorina da volontario, «ma pioveva e ho detto: c´è solo una scelta, asciutti o bagnati. Hanno discusso un po´ e sono entrati».
A Mirandola, invece, i musulmani chiedevano bagni separati, e qui Pelagatti che è un uomo tranquillo è sbottato, «e che, è una tendopoli o una bagnopoli?». Poi però ti confessa che «in realtà sono gli italiani che mugugnano di più». Per esempio Antonio e Sara: «Gli stranieri si lavano i piedi davanti alle tende». Bisognerebbe spiegare ad Antonio e Sara cosa sono le abluzioni rituali prima della preghiera del venerdì. Ma forse c´è chi lo può fare. Ecco Gurwinder Sikh detto Guru, ha solo 17 anni ma guai se non ci fosse, l´interprete del campo, in realtà il mediatore culturale, paziente, simpatico, «se parli le cose si risolvono» è il suo mantra. Ha organizzato una squadra di coetanei, sikh e indù, che aiuta a pulire i bagni e a servire alla mensa. Ecco, saranno forse i ragazzi come Apooraf, come Gurminder, immigrati di seconda generazione, né più stranieri né del tutto italiani, a costruire la convivenza difficile. Oppure quelli come Mohamed, imponente marocchino ottimista. In coda alla macchinetta del caffé sgrida bonario i connazionali maleducati: «in fila! Bisogna fare la fila!». In Italia da vent´anni, chiama «mamma» la signora Maria, vicina di casa sfollata anche lei. «Sai», ti dice conciliante, «bisogna avere pazienza, il terremoto scuote la terra e la testa». Vero, ma proprio per questo nel campo della provincia di Trento, a San Felice, ogni minima infrazione è una miccia: non svuotare subito la lavatrice, egemonizzare le prese per i cellulari, fumare in tenda. Luisa Zappini, ex infermiera, donna decisa, governatrice del campo, ha un metodo: «Agli ospiti diciamo: non è un albergo, è casa vostra, non siete serviti, datevi da fare». Ogni gruppo nazionale elegge un referente, e se qualcuno sgarra, è il referente che viene richiamato per rottura del patto. Certo, un campo profughi multietnico è la nostra società compressa in una provetta. Magari, questo esperimento non previsto e non voluto servirà perfino a imparare qualcosa.

La Repubblica 02.06.12