Un capitolo tutto dedicato alle donne. Già questa è una novità degna di nota nella storia delle relazioni annuali di Banca d’Italia che, come istituzione, ha già approfondito il tema femminile in numerosi studi. Ma se i dati sul divario di genere sono per lo più quelli noti, e condannano l’Italia al 90° posto su 145 nella graduatoria dei Paesi che consentono alle donne pari partecipazione e opportunità economiche, coraggioso è l’approccio.
«A una più elevata presenza di donne tra gli amministratori pubblici corrispondono livelli di corruzione più bassi e un’allocazione delle risorse orientata alla spesa sanitaria e ai servizi di cura e istruzione» si legge in un passaggio della relazione, che cita «evidenze internazionali» in questo senso. E ancora: «Una maggiore occupazione femminile si associa – secondo la relazione – all’acquisto di beni e servizi, specie quelli di cura, altrimenti prodotti all’interno della famiglia, stimolando l’espansione di un mercato in Italia poco sviluppato». E in definitiva «può determinare una crescita complessiva del Pil».
La realtà però è un’altra: il tasso di occupazione femminile nel 2011 era inferiore di 21 punti rispetto a quello maschile; il divario salariale era in media del 6% tra il 1995 e il 2008; nelle imprese con almeno 50 dipendenti è donna il 12% dei dirigenti, mentre a ricoprire un ruolo di alta dirigenza nei cda di imprese con oltre 10 milioni di fatturato c’è solo un 9% di donne, con qualche miglioramento nell’ultimo anno nelle società quotate, grazie alla legge che impone le «quote rosa». Impressionante anche il dato relativo alle difficoltà di accesso al credito delle imprenditrici, che oltre a «dover fornire garanzie più frequentemente, pagano un tasso di interesse più alto sugli scoperti fino a 30 punti base».
Insomma, anche se ragioni legate all’etica e all’economia consiglierebbero un cambiamento, l’Italia si caratterizza ancora per un forte divario e «per la diffusione di pregiudizi valoriali non favorevoli alla presenza femminile nell’economia e nella società». Ma se questi pregiudizi vanno condannati, suggerisce Banca d’Italia, ci sono invece «diverse attitudini» da valorizzare. È questo forse il capitolo più curioso della relazione, laddove ci si spinge a sostenere che le differenze attitudinali tra i sessi «siano esse di origine biologica o culturale, sono ampiamente documentate». E le si elenca: «Le donne appaiono caratterizzate da una maggiore avversione al rischio, da una minore autostima, da una più accentuata avversione per i contesti competitivi». Se tutto questo è vero, allora, si osserva, si generano fenomeni di «discriminazione implicita» laddove «vengano premiate sul mercato del lavoro caratteristiche più diffuse tra gli uomini».
Il COrriere della Sera 01.06.12