Ho recuperato lo zainetto, gli occhiali da sole e soprattutto il mio cappellino degli Yankees…» Appena esce dall’aula Dahmi Zakaria se lo pigia in testa togliendosi il caschetto rosso che gli hanno dato i ragazzi della Protezione Civile. Fuori lo attende il campo tende dove dorme con la sua famiglia, la Conad di via Genova che prova a riaprire e il viavai degli aiuti: casse di acqua, conserve di pomodoro, pacchi di pasta, tonno e biscotti offerti da cittadini, associazioni, aziende e artigiani come Weiber Morandi, che arriva da Vignola con il suo furgoncino per scaricare pane fresco e pannoloni.
La scuola media di Medolla, il comune epicentro del secondo sisma, da mercoledì è un magazzino merci per le tendopoli. Ma ieri, per due ore, dalle 11 alle 13, in tutta la zona del sisma ragazzi, genitori e insegnanti delle scuole non pericolanti sono potuti entrare in aula a riprendersi le cose abbandonate nel fuggi fuggi. «Non c’è stata una fiumana», ammettono dall’ufficio scolastico di Modena. Rientrare anche un attimo è uno choc. Alcuni ragazzi sono partiti per il mare in anticipo, altri mandano i genitori, per altri ancora è semplicemente troppo presto. «Qui a Medolla saranno venuti non più di una decina», confermano i volontari mentre riempiono di viveri l’ingresso dell’edificio. «Quasi tutti timorosi». Non Dahmi Zakaria, fisico robusto e olivastro, che frequenta la 3C. È figlio di genitori marocchini ma parla con la calata tipica emiliana. All’inizio non vorrebbe farsi fotografare, poi non la finisce più di raccontare l’incubo di martedì. «Ci siamo buttati sotto il banco», racconta concitato. «Ballava tutto, non riuscivo a tenermelo sopra la testa. Ma ora sono contento, ho recuperato il mio cappellino. Ciao giornalista…»
Poco prima erano entrate Giorgia Pansa e Irene Goldoni. Si sono fatte forza e lo hanno fatto senza genitori. Giorgia è in classe con Dahmi, Irene invece in 3A. «Avevamo lasciato in aula zaini, chiavi di casa, occhiali, il cellulare fortuna no».
I 171 ragazzi delle scuole medie di Medolla erano tornate in classe appena il giorno prima del secondo botto, dopo il terremoto del 20 maggio. «Stavamo iniziando l’ora di tecnica ed è arrivata la scossa», ricorda Giorgia. Irene stava facendo una verifica di matematica. «All’improvviso tutti hanno cominciato a urlare». Adesso le due amiche dormono insieme in tenda nel giardino della casa della zia di Irene. I genitori di Giorgia lavorano entrambi nel biomedicale in panne: la mamma alla Gambro, il papà alla Covidien. La mamma di Irene invece fa l’infermiera all’ospedale di Mirandola, «adesso è distaccata nelle tendopoli a dare una mano».
Nel pratone dietro le medie, i bambini più piccoli stanno giocando con lenzuolo e pennarelli. Dopo averlo colorato ce lo fanno vedere. C’è scritto «la terra trema, i bimbi giocano». La vita va avanti, specie a quella età. Alcuni adulti della tendopoli vanno a firmarlo mentre un trenino umano lo porta in giro come fosse un aquilone.
Le scuole dei paesi del cratere ormai riapriranno a settembre. Ma ci sono gli esami da fare e gli scrutini. Un bel problema organizzarli. Per esempio a Mirandola alla «Dante Alighieri» è crollato il tetto, mentre quelle agibili come la media «Montanari» sono diventate sedi istituzionali d’emergenza. Lo spiazzo davanti è pieno di gazebo del Comune: l’anagrafe, il centro anziani, l’ufficio pratiche stranieri e il punto scuola. In fila ci sono genitori con ragazzi italiani e stranieri perché il terremoto è multietnico. «Saranno garantiti gli scrutini in tutte le scuole, gli esami di licenza media e di qualifica professionale e gli esami di stato», spiega un prof sotto la tenda. «Probabilmente si adotterà il modello l’Aquila: esame di maturità per i 400 ragazzi di Mirandola solo con la prova orale», anticipa l’assessore all’istruzione, Carla Farina. Per i 200 di terza media si deve ancora decidere: esame o validazione dell’anno? Dahmi, Giorgia e Irene vorrebbero saperlo.
Nel frattempo giri l’angolo e nel cortile dell’Itis «Galileo Galilei» i professori hanno montato un tavolino per appoggiare registri, pc, effetti personali. In aula entrano solo i pompieri che escono con piccole casse di libri e documenti. «Dentro la scuola sembra bombardata. Solo che dobbiamo recuperare i registri per chiudere l’anno», spiega il vice preside interrotto da un capannello di genitori e studenti in bermuda come Stefano e il suo amico Carlo, che vogliono capirne di più. «I ragazzi che devono fare gli esami hanno solo i libri nello zaino. A casa non li fanno rientrare. E poi come ci si può preparare così?» Carlo e Stefano sorridono. «Per una volta, il prof ci sta dando ragione».
La Stampa 02.06.12
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“Perché vorrei andare a scuola lunedì”, di Cristina Contri
A Modena città, dove vivo, non abbiamo perso la casa, non abbiamo avuto gravi danni, la nostra angoscia è ridicola rispetto a quella di coloro che hanno visto crollare tutto, i ricordi di una vita e gli oggetti della quotidianità frantumarsi assieme a quei mattoni che per anni, per una vita intera, hanno rappresentato il confine che poteva proteggere dal fuori. Dentro casa ognuno si sente al sicuro. Basta pensare alla frasi che ripetiamo continuamente: casa dolce casa, che bello essere a casa, finalmente a casa, è bello andare in vacanza ma che bello ritornare a casa, a casa mia sto bene, ci ho messo i risparmi di una vita ecc. Ecco, la nostra angoscia è ridicola perché la casa c’è ancora, e c’è anche la casa vicina, e ci sono tutte le case della città, però il terremoto è entrato dentro la nostra quotidianità e ha scosso, insieme alle case, le nostre vite. Questa angoscia del terremoto è diversa da molte altre, perché il terremoto è angoscia di una comunità. All’alba del 20 maggio, dopo la prima forte scossa, in strada, ho conosciuto molte persone del mio palazzo e di quelli vicini, molte più di quante non ne avessi conosciute negli ultimi due anni. Verso le sei, dopo la seconda scossa di quella domenica mattina, un ragazzino è salito in casa ed è tornato giù in strada con una mezza torta, una crostata, e le persone non hanno esitato ad assaggiarne una fetta. Era l’alba, ma le strade del centro di Modena erano affollate come in pieno giorno, qualcuno era in pigiama, qualcuno vestito di tutto punto, e si mangiava, tutti assieme, un avanzo di crostata, qualcuno tentava di far ridere e qualcuno rideva. Erano le prime due scosse, il primo tremore, non sapevamo ancora che c’erano dei morti, e comunque tutti pensavamo che fosse finita lì. Quella mattina ho pensato che il terremoto è uno di quegli eventi che colpisce l’intera comunità, non i singoli, abbatte i confini tra il dentro e il fuori e alimenta il bisogno di restare tutti assieme.
Il giorno dopo, a scuola, i miei alunni, bambini e bambine di 10 anni, avevano ancora paura; la paura di avere visto i loro genitori avere paura, perché quando i grandi, gli adulti, gridano di terrore, i bambini si sentono invadere dall’impotenza. Più del terremoto li avevano spaventati le reazioni delle mamme e dei papà, dei vicini di casa. Quel lunedì mattina, a scuola, abbiamo parlato molto, ognuno ha raccontato come aveva passato l’alba della domenica, in strada e poi in macchina, qualcuno al parco, e piano piano, dopo due ore, ho visto che la paura si scioglieva e anche io stavo meglio. La forza dello stare assieme produceva un nuovo coraggio, e con questo coraggio nuovo siamo andati avanti per nove giorni. Ci sono state le scosse di terremoto, quelle più piccole, un giorno abbiamo evacuato la scuola dopo una scossa un po’più forte delle altre, ma tutti, grandi e bambini, convinti che si trattasse della fase di assestamento. Lentamente la vita tornava alla normalità e, pur vigili, pronti a scattare ad ogni piccola vibrazione, ogni rumore, siamo andati avanti convinti che fosse tutto passato. Poi il martedì mattina, il 29 maggio, di nuovo il terrore. Questa volta più nessuno aveva la forza di dirsi che era passato, nessuno aveva la forza di dire niente, solo sguardi terrorizzati; il 29 maggio abbiamo vissuto la potenza devastante dell’imprevedibile, nulla si poteva più dire. E quando mancano le parole, l’angoscia trova posto e si fa largo.
Sono passati tre giorni, stamattina sono andata a scuola, l’attività didattica è sospesa, le aule sono ancora come sono state lasciate martedì mattina, i quaderni e gli astucci aperti sui banchi, le lavagne traboccano di parole, o di operazioni. Manca ancora una settimana prima della fine ufficiale della scuola. Sono belli gli ultimi giorni di scuola, quando si fa il bilancio di quello che si è imparato, delle esperienze vissute durante l’anno, ci si saluta, c’è gioia nei bambini. La fine della scuola è un rituale che tutti, se andiamo indietro con la memoria, ricordiamo con piacere. In questo momento non sappiamo ancora se lunedì prossimo le scuole riapriranno, io però non riesco a mandare giù l’idea che un anno scolastico possa finire in questo modo. Non mi va proprio giù. Il terremoto ha costituito un evento che casualmente e improvvisamente è entrato nella nostra quotidianità e l’ha resa eccezionale, una situazione ci ha colpito, e riguarda noi, e noi, noi uomini intendo, abbiamo bisogno e voglia di conoscere e di capire quello che è successo, come è successo e perché, e abbiamo bisogno di raccontarci le storie di quello che abbiamo fatto, di come abbiamo reagito, di cosa abbiamo visto. Se anche le risposte non esistono, la voglia di conoscere rimane, così come resta il bisogno di raccontarci le nostre storie del terremoto. Conoscenza e narrazione, proprio quello che facciamo a scuola.
Mi sono venuti in mente tutti gli anni in cui con Andrea Canevaro e un gruppo di studenti universitari abbiamo fatto ricerca sulle situazione estreme, studiavamo quelle linee di resistenza che chi si trova in situazioni estreme mette in atto per andare avanti, le studiavamo perché pensavamo che quelle linee di resistenza, come le chiamavamo, potessero essere indicazioni utili sempre, anche nello scorrere normale della vita. Soprattutto mi sono ricordata di quella forma di resistenza che chiamavamo impegno nel quotidiano e nell’orizzonte della storia, e citavamo Korczak che nel ghetto di Varsavia, pochi giorni prima di morire, scriveva un articolo sull’importanza di rassettare la tavola dopo il pasto, e, negli stessi giorni, organizzava dei gruppi di studio sull’emancipazione femminile e su Napoleone Bonaparte. Ecco, l’attenzione alle piccole cose del quotidiano e l’apertura all’orizzonte della storia ci sembrava una linea di resistenza. Non voglio fare alcun paragone con quella situazione in cui si trovava Korczak, a Varsavia, con i suoi bambini, ma credo che si possa condividere l’idea che in qualunque momento è importante continuare ad impegnarsi nelle piccole cose, così come è importante continuare a studiare. Ho sentito persone in questi giorni dire frasi come: sì va bene la scuola, però prima ci sono altre cose a cui pensare! Come se fosse necessario fare una graduatoria, come se non si potessero tenere assieme tutte le cose importanti.
Ecco io vorrei tornare a scuola lunedì, vorrei incontrare i miei alunni e farli raccontare, vorrei dare loro i compiti delle vacanze, vorrei fare il gioco del “mi ricordo” per mettere in fila tutto quello che abbiamo fatto quest’anno, e poi vorrei dare loro un senso di normalità, perché la quotidianità rassicura. Lo so che nessuno di noi è tranquillo, lo so che avrò paura e sussulterò ad ogni vibrazione e ad ogni strano rumore, eppure io sono convinta che questo gesto di forza e di coraggio noi adulti lo dobbiamo ai piccoli, perché ci hanno visto avere paura e si sono spaventati, e allora dobbiamo comunicargli che anche se si è spaventati si continua a vivere, non ci si perde, si va avanti, si sta insieme, si parla e si impara. Perché se il terremoto è angoscia di una comunità, è nella comunità che l’angoscia deve essere elaborata.
da flcgil.it