Se un nemico avesse dovuto scegliere una zona produttiva da bombardare per provocare, in un territorio limitato, il massimo danno possibile all’Italia, ben difficilmente avrebbe potuto trovare un obiettivo migliore dell’area colpita da due terremoti in rapidissima successione. Sono radicate in queste zone imprese piccole o medie, poco burocratiche e molto vitali, aperte senza traumi alla globalizzazione. Nei recenti anni bui dell’economia italiana, hanno rappresentato il progetto di un futuro possibile per la crescita del Paese, spesso l’unico delineato nei fatti in una società addormentata.
Operano in settori molto diversi con i quali l’Italia cerca di rientrare in un’economia globale in cui corre il rischio di diventare quasi marginale: dalle piastrelle agli apparecchi diagnostici fino alla nuova avventura agricola del parmigiano, proposto in grande stile a un crescente mercato mondiale. Hanno dimostrato di saper combinare con successo organizzazioni di produzione all’avanguardia e organizzazioni di vendita moderne, dal respiro globale.
Il Paese semplicemente non può permettersi di perdere settori come questi in particolare in un momento in cui al terremoto fisico si aggiunge il terremoto finanziario che scuote un’Europa incredula e clamorosamente impotente, assai poco capace di reagire, di fronte all’attacco dei mercati ai titoli dei debiti sovrani. L’Italia dell’economia deve dimostrare di essere più brava dell’Europa della finanza.
Per questo non è proponibile oggi, come è stato il caso per altri episodi sismici anche recenti, commiserare prima di ricostruire, lasciar sedimentare le tendopoli in attesa di riedificazioni più o meno lontane. Nell’economia di oggi, un fermo di 4-6 mesi per imprese e settori lanciati in un’avventura globale può significare perdite di quote di mercato con effetti assai più distruttivi per l’economia di quelli dei capannoni crollati. Il terremoto ha fatto crollare le fabbriche, il dopo-terremoto può far crollare le imprese. Le popolazioni, del resto, dicono chiaramente che le loro priorità sono per la ricostruzione produttiva: sanno benissimo che di lì deriva il loro futuro.
Per uscirne fuori bene, gli italiani devono fare come nel dopoguerra. I programmi di aiuto devono avere tre caratteristiche: priorità alla ricostruzione produttiva e sua estrema rapidità, burocrazia al minimo, finanziamenti immediati. Soprattutto, però, è necessario un quarto fattore: un gioco di squadra tra imprese e lavoratori, banche e amministrazioni pubbliche, governo compreso. Un simile gioco di squadra nelle gravi emergenze è, del resto, tipico della tradizione italiana: nel cruento finale della Seconda Guerra mondiale l’industria automobilistica fu salvata dalla collaborazione di fatto tra la Fiat e i nuovi sindacati, il che non impedì che, terminata l’emergenza, ciascuno tornasse al suo ruolo e le contrapposizioni di interesse riapparissero con grande vigore.
Gli strumenti per agire non mancano: il credito necessario è alla portata del sistema bancario e finanziario italiano, assai più solido di quanto facciano ritenere valutazioni affrettate, e non richiede importanti esborsi pubblici che potranno essere in parte sostituiti da semplici garanzie statali. La voglia di ricostruire è accanita e diffusa e così quella delle amministrazioni di favorire ricostruzione e rinascita. La solidarietà nazionale sembra essersi riaccesa, come dimostrano non solo le sottoscrizioni e i volontari ma anche il favore con cui sono accolte le offerte di acquisto di prodotti delle imprese colpite dal terremoto, a cominciare ai formaggi. Invece che un ulteriore freno all’economia, il dopoterremoto potrebbe diventare un inaspettato strumento di rinascita e di recupero della coesione nazionale.
La Stampa 31.05.12