C´è una crepa nel cuore dell´Italia. Una crepa nella terra che abbiamo dimenticato e una crepa nella storia che spesso ci pesa ricordare. Sono abbastanza vecchio da aver vissuto il terremoto del 1929: l´Emilia doveva essere infrangibile e invece dormimmo all´aperto per giorni, qualcuno nelle poche macchine che c´erano, tanti nelle tende, e poi fummo ‘sfollati´ a San Marino di Bentivoglio, un piccolo paese in campagna, vicino a Bologna. Costruimmo casette in legno – ricordo ancora l´odore di colla – per provare a difenderci e ricominciare.
Anche allora nessuno ricordava le scosse della storia, quando nei secoli passati persino la Torre degli Asinelli era stata danneggiata. L´Emilia pensa spesso di essere indenne: viene colpita, soffre e dimentica.
Quel che sta succedendo adesso purtroppo riguarda tutti: abbiamo cementificato i fiumi, trapanato campi e colline. Dalla terra abbiamo risucchiato l´anima rispettabile, senza pietà. E quando arriva un terremoto, la catastrofe ci ricorda la forza imprevedibile e ci trascina nello sgomento.
Conosco bene quelle zone, la Bassa tra Modena e Ferrara, ricordo i campi e l´agricoltura. Poi è arrivato lo sfruttamento, qui come altrove. Ci sono posti con nomi bellissimi, Concordia, Mirandola, San Felice. Sono paesi della pianura, zone che circondano Bologna, paesi a un pugno dalle nostre finestre. Che hanno tremato con loro.
Ma oggi non credo che serva poesia né demagogia, perché la nostra terra l´abbiamo abbandonata. Servirebbe speranza, quella sì. Ma per la speranza occorre una passione che può nascere solo da una visione più grande che non schiaccia i deboli, gli umili, gli indifesi.
Parliamo spesso del senso di comunità che qui, in queste zone, è forte e saldo. Eppure credo, senza essere apocalittico, che anche quello possa andare smarrito. Nelle disgrazie ritroviamo la reciproca pietà: vengono fuori sentimenti austeri, di collaborazione. Ma sono sentimenti. Quello che serve è una visione, larga, del futuro. Che riconosca il passato e quel che è successo. Che ce lo faccia leggere, finalmente, e che lo voglia cambiare.
Come fecero gli illuministi dopo il terremoto di Lisbona: lo racconta Kant, lo spiega Voltaire. Un progetto per una città nuova. E – senza più bisogno di citare i grandi filosofi – come successe in Friuli. Quella ricostruzione è stata una vera ricostruzione: non c´è esempio uguale.
Oggi viviamo in un tempo arretrato, anche qui, in Emilia. E abbiamo sotto gli occhi le transenne che ancora imprigionano L´Aquila. Serve una tensione operativa, qualcosa che non sia solo percepito come elemosina di Stato ma diventi volontà di Governo per dare un segnale vero.
Per questo vorrei sfuggire alla retorica della comunità ferita che si rialza: può essere pericolosa perché ogni individuo deve contare su se stesso sapendo di poter contare sullo Stato. Su un´idea di progresso, di futuro. Abbiamo massacrato la terra, l´abbiamo manovrata e vilipesa, abbiamo deviato le acque e consumato natura: anche qui. Impietosamente. E ci siamo dimenticati della crepa, delle tante crepe che si possono aprire.
L´unica vera “vittoria” sulla tragedia del terremoto sarebbe quella che riconsegnasse alla gente la convinzione culturale, morale e istituzionale del mondo in cui si vuole vivere, lasciando da parte utopie liberistiche, falsamente democratiche. Dobbiamo ritrovare il coraggio di difenderci dal vortice della mortificazione del presente, “alzando da terra il sole”.
(testo raccolto)
La Repubblica 31.05.12
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“Io industriale, predico una religione estinta”, di Concita De Gregorio
«Il lavoro non si può fermare. Non si deve fermare. Se si ferma il lavoro è come morire da vivi, perché stai qui, ci vede, stiamo tutti qui carichi, pieni di energia».
«Pronti a rimetterci in moto e non c´è niente da fare. Giriamo nei piazzali come anime in pena, se nei capannoni avessimo animali li metteremmo in salvo e ricominceremmo a governarli altrove ma abbiamo macchine, e le macchine da sole non si muovono, e non possiamo entrare nemmeno un minuto a tirarle via da li, e ogni giorno di fermo è un giorno in cui perdi clienti che ci hai messo una vita a conquistare, e se perdi clienti perdi commesse e perdi lavoro, intendo posti di lavoro, chi ci rimette davvero alla fine sono questi ragazzi che mandano avanti le famiglie con 1200 euro al mese e se li metti in cassa integrazione come fanno, cosa fanno, se gli togli lavoro gli hai tolto tutto davvero».
Vainer Marchesini ha una bella faccia che ride anche quando gli occhi sono bui, 66 anni, una bicicletta sotto il sedere, una busta di tabacco in tasca, due figli trentenni, 2200 dipendenti, 21 centri di produzione e 35 di vendita in tutto il mondo. Wam, si chiama la ditta. Sede centrale: Cavezzo. L´epicentro del terremoto che ha fermato il rombo ininterrotto dei motori che tutti, qui, sanno far funzionare fin da bambini. Cominciano smontando il motorino, finiscono facendo a gara con le macchine per vedere chi va più veloce, se l´uomo o la pressa. Ha cominciato con 64 mila lire e un´idea: fabbricare un tubo con un´elica dentro per trasportare il cemento, una coclea. Orfano di padre, sua madre bracciante agricola. Era il 1967. Ha lasciato i campi e si è messo a realizzare quell´idea: a mano, con saldatrice e cannello. Il primo anno di quei tubi ne ha fatti tre. Oggi è leader di macchine di precisione per il trasporto polveri nel mondo intero, ha cento brevetti internazionali, produce in America e in Cina, in Turchia e in Australia, in Brasile, in India. «Non ho fatto niente di speciale, era facile negli anni Sessanta, se avevi un´idea la realizzavi e via, poi lavoro lavoro lavoro, e basta. E´ oggi che non è più così, perché abbiamo smesso di vedere la ricchezza dov´è: la ricchezza è nelle cose, nella terra e nel mare, nel lavoro che li trasforma, nella manifattura, nell´ingegno che produce gli oggetti. Non nella finanza, no. Quello è un inganno. Eppure guardi, qui non abbiamo neppure le strade per portare nel resto del mondo i pezzi che produciamo solo noi. E´ come se fossimo monaci che si ostinano a praticare una religione estinta: quelle che ci hanno insegnato i nostri nonni e i nostri padri che anche la domenica, anche a Natale andavano nei campi. E ora cosa ci dice questo terremoto, cosa ci insegna? Se si ferma la produzione ci fermiamo tutti, questo ci dice: di lavoro si può morire, ma senza lavoro si muore di certo. Qui il terremoto non l´abbiamo mai visto, le nostre chiese, quelle che sono crollate, avevano mille anni. Qui ci aspettiamo le inondazioni, e siamo pronti. Ma la terra che salta e che ti mangia no, è una paura nuova. Rompe per sempre quella pazienza tranquilla di cui siamo fatti, lo so. Lo vedo negli occhi dei miei ragazzi. Non c´è rimedio a una paura nuova. Però bisogna fare, adesso, e fare subito».
Lascia la vecchia bici, l´appoggia a un albero. Si toglie il casco giallo dalla testa, saluta i ragazzi sul piazzale. Dà uno sguardo dentro la pancia buia dei capannoni con l´apprensione esperta che sua madre avrebbe riservato alla mucca che non dà latte nella stalla. Monta un ufficietto sotto un acero, venga che si sta sicuri qui, portiamo la scrivania e le sedie all´ombra. Si fa una sigaretta col tabacco. Sbuffa una volta sola, ma poco, quando al telefono gli spiegano che più o meno serviranno 8 milioni per rifare tutto, capannoni in sicurezza, e ripartire.
Dà un´occhiata all´orizzonte. Cavezzo chiusa dalle transenne. Deserto e silenzio. «E´ bello qui, vero?». Capannoni industriali a perdita d´occhio. «E´ come un motore sempre in moto, lo vede? Poi quando è finito l´orario della fabbrica si torna alla terra che la terra è paziente, sa aspettare che suoni la sirena di fine turno, e se c´è ancora luce si lavora lì. Si lavora il doppio e nessuno mette nel conto il suo lavoro. A me per vivere i soldi non mi servono quasi a niente. Una bici, il tabacco, poi son sempre qui. Anche la domenica. Quel che si guadagna torna tutto in azienda. E come me ce ne sono mille, guardi, uno in ogni capannone. Io sono la fotocopia di tutti quelli intorno. Ormai vecchietti – ride – ma ancora pieni di energie». La fotocopia di tutti quelli intorno. La terra continua a ballare sotto le sedie all´ombra dell´acero. Otto milioni di euro. Ma come si fa, ora? «Si fa, si fa. Si spende di meno, si lavora di più. Ci facciamo venire un´idea. I ragazzi dell´unità di crisi – li chiamo così i nostri quarantenni, io invecchio ma non voglio mica che invecchi la fabbrica, sono tutti laureati – sono già lì che ci pensano. Ora dobbiamo essere sicuri di poter ripartire, perché noi non abbiamo avuto morti ma l´ingegnere che è rimasto sotto le macerie martedì era da noi domenica e non smetto di pensare a lui. Sembrava tutto a posto. La paura chiede tempo. Ora fino a lunedì stiamo fermi, poi vediamo. Certo dobbiamo ripartire. Presto, prestissimo».
Vainer si chiama Vainer perché quando è nato sua sorella era innamorata di un partigiano di 22 anni, bellissimo, fucilato nei campi, che si chiamava così. Qui nel carpigiano hanno nomi che non somigliano a niente, magnifici. «A otto anni ero orfano di padre, mia madre lavorava nei campi, mi ha mandato in un collegio di preti a studiare il greco e il latino. Bologna, fuori casa. Poi la scuola tecnica, cinque anni, poi il primo lavoro in un´azienda di costruzioni. Ufficio Acquisti. Dopo un po´ ho pensato che una macchina che compravamo si poteva fare meglio di così. Ho preso la buonuscita, 64 mila 432 lire. Era il 1967. Ho costruito una coclea per il trasporto del cemento, anzi tre. Tre in un anno, a mano, con saldatrice e cannello. Ho fondato la “Marchesini Vainer”, si metteva prima il cognome, allora. Il secondo anno ne facevo una alla settimana, poi una al giorno. Sono andato a cercare clienti in Germania, in Francia. Nel ‘73 ho brevettato una coclea verticale, per portare il cemento su nei silos. Sembra un´idea da niente ma non ci aveva pensato nessuno. Ho esportato tantissimo. Nell´84 ho cambiato nome. Wam. Ho messo la doppia “v” perché così l´azienda sembrava tedesca, la doppia “v” dà più affidabilità. Ho aperto in America, poi in Cina. Poi mi sono messo a studiare le polveri. Il successo dipende sempre dalla conoscenza. Come si comportano le polveri, lei lo sa? Ecco, non lo sapeva nessuno. Abbiamo brevettato valvole, filtri, sistemi di raccolta. Abbiamo aperto in Brasile, in India. Otto stabilimenti in Italia. Duemila e duecento dipendenti, ma il cuore è rimasto qui. Non abbiamo un grande fatturato perché al contrario delle filosofie correnti in quegli anni non abbiamo dato niente fuori. No outsourcing, no. Abbiamo tenuto tutto dentro. Investiamo nell´azienda. A me serve poco per vivere. La bici, il tabacco, lavoro anche la domenica. Gli operai, al principio, erano tutti di qui. Quando dico di qui intendo non la provincia, ma il comune. Cavezzo. Io stesso sono un forestiero. Sono nato a Solliera, dieci chilometri più in là. Cavezzo è Cavezzo. Poi sono arrivati gli immigrati dal Sud, soprattutto da Avellino. Begli anni, il territorio li ha accolti, si stava benissimo. Poi sono venuti gli indiani, i pachistani e i ragazzi dell´Africa centrale. Dal Ghana tantissimi. Hanno fatto anche una squadra di calcio qui in paese. A me pare che siano contenti del lavoro, io sono contento di lavorare con loro. Mi sono sempre tenuto lontano dalla politica. Quando un nostro dipendente è diventato sindaco ho smesso di andare a fare le pratiche in Comune. Prima ci andavo di persona, ora ci mando un impiegato. C´è un bel senso di appartenenza alla fabbrica, un grande rispetto reciproco. La Fiom è al 90 per cento. Abbiamo fatto dei contratti molto innovativi. Non abbiamo delocalizzato la produzione: abbiamo aperto centri di produzione per quei mercati, è diverso. Molti nostri operai, ai quali facciamo corsi di lingue, vanno poi all´estero e alcuni non tornano. A Shanghai vivono bene. Mia figlia Elena, che ha 34 anni, ha aperto li un´azienda di moda: qui a Cavezzo fa il design, in Cina vende servizi. Mio figlio Marcello invece lavora qui, coi manager che sono tutti quarantenni. La crisi del 2009 l´abbiamo sentita, certo. Ma in Europa: i mercati esteri vanno bene e ci tengono in alto».
«Il terremoto non ce lo potevamo immaginare. Qui l´amicizia della terra era una certezza. Ora bisognerà tirar già tutto quello che non è sicuro e rifarlo da capo. Quando è arrivato, alle nove di martedì, eravamo tutti al lavoro. In dieci secondi gli operai sono usciti, le prove di evacuazione sono servite, alla fine… Io mi sono messo sotto una colonna ad aspettare. Il capannone di ferro è intatto, è venuta giù una capriata in quello di cemento. Ma il ferro qui in Italia è carissimo, e in tanti casi non si può proprio usare per legge. Le nuove norme antisismiche le abbiamo osservate sempre. Non bastavano, si vede. Adesso dobbiamo spostare tutto, e dire che avevamo appena finito di montare i pannelli solari…Bisogna fare presto, prestissimo. Un mese di fermo è troppo tempo. Ora ci rimbocchiamo le maniche e ricominciamo. Non posso mica lasciarli senza lavoro, questi ragazzi qua. Se ti si ammala una mucca la curi e la guarisci. Il futuro è questa cosa qui. Fare le cose, produrre, inventare le soluzioni ai problemi. E non arrendersi mai, mai. Che il latte non arriverà se non dalla stalla, mi creda. L´unica cura che conosco è il lavoro. Un´altra non c´è».
La Repubblica 31.05.12
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“Danni per oltre due miliardi cancellata l´industria emiliana” e il capannone si sposta in tenda, di Jenner Meletti
“Da queste parti alle difficoltà siamo abituati, ma stavolta è stata davvero troppo grossa”. Gli imprenditori: “Se restiamo fermi perderemo i clienti e saremo costretti a chiudere”. In ginocchio i distretti, dal biomedicale all´alimentare, dal meccanico alla ceramica
Fa impressione il silenzio, in via di Mezzo, che era una strada di campagna ed è diventata la spina dorsale di una zona industriale invidiata in mezzo mondo. Si sente soltanto l´allarme di una fabbrica che non smette di suonare dalla mattina di martedì. «Siamo venuti qui per spegnerlo, ma non possiamo entrare in azienda». Carlo e Alberto Barbi costruiscono qui, nella ditta «Barbi Galileo», i loro autobus Granturismo. Ce ne sono sei nel piazzale, due finiti e lucidissimi, gli altri quattro da terminare. «Per fortuna li avevamo portati fuori dopo la prima scossa della domenica». All´ombra di un pioppo, Carlo Barbi, 63 anni, può raccontare un pezzo della storia di Mirandola e di questa Bassa che è conosciuta più all´estero che in Italia. «Posso dire – racconta – che molti della mia generazione si sono dati da fare. Mauro Mantovani, il titolare della Aries, che è morto perché è stato l´ultimo a uscire dalla fabbrica, era un mio compagno di scuola».
Nella strada deserta – ci sono i capannoni spezzati dell´Api, della Cls costruzioni, della Coop gas, della RB, della Picotronik… – passa una pattuglia di vigili urbani con un altoparlante. L´annuncio fa venire in mente gli anni del coprifuoco. «Per il momento è vietato entrare in tutte le aziende e negli edifici industriali. Vi preghiamo di mantenere la calma e di collaborare con le autorità». Il sindaco Maino Benatti ha firmato l´ordinanza che impedisce ai titolari delle aziende, oltre naturalmente agli operai, di entrare in fabbrica. Ci sono state troppe vittime fra i lavoratori, e oltre a Mauro Mantovani un altro imprenditore, Enea Grilli, è stato schiacciato dal cemento della sua azienda. C´era fretta di tornare al lavoro, si sperava che quella del 20 maggio fosse l´ultima scossa. Così non è stato. E ora sulla strage degli operai la procura di Modena ha aperto un´inchiesta per omicidio colposo.
Mario Veronesi, 80 anni, è lo Steve Jobs del distretto del biomedicale. Ottocento – mille milioni di fatturato, 100 imprese e oltre 4.000 addetti. «Dobbiamo riprenderci in fretta – dice – ma usando la ragione. Intanto dobbiamo stimare i danni per capire se una ripresa sia possibile. E dobbiamo sapere quali siano le cose da cambiare. Se si alza il livello di pericolo sismico, ad esempio, come faremo a intervenire nelle fabbriche? Le fondamenta delle aziende non si cambiano». Era un farmacista, Mario Veronesi, che dopo un viaggio negli Stati Uniti chiamò dei professori dell´istituto tecnico e alcuni allievi e si mise a produrre «set da infusioni», le flebo, e poi tutto ciò che serve per la dialisi. Adesso, nel polo mirandolese, si costruiscono quelli che sono chiamati i «cuori artificiali» e gran parte delle macchine e degli utensili usati nella sale operatorie.
Anche il fondatore del biomedicale ora è lontano da Mirandola. «La mia casa è solida ma è nel centro storico, zona rossa, e così sono stato cacciato fuori. Certo, ragionare e fare presto non è facile, ma dobbiamo riuscirci». Ha costruito aziende comprate poi dalle multinazionali, ne ha costruito altre che sono all´avanguardia nel mondo. «Io dico sempre ai miei colleghi e anche agli operai: fate in modo che le multinazionali abbiano interesse a restare qui. C´è il pericolo, dopo questo disastro, che alcune di loro decidano di migrare altrove. Solo facendo presto e bene impediremo questa fuga. Il biomedicale è un settore delicato. Con le aziende bloccate, non riusciamo a servire i nostri clienti, ospedali in testa. E rischiamo così che questi enti, che non possono restare senza la nostra “merce”, si rivolgano ad altri produttori».
«Rischiamo – dice il sindaco Maino Benatti – di tornare agli anni ‘50». «Rischiamo davvero – racconta Mario Veronesi – di buttare via un lavoro di 50 anni. Non ce lo possiamo permettere, i giovani hanno diritto a un futuro. Quando ho cominciato io, qui c´erano un grande mercato bestiame, un salumificio, uno zuccherificio, una fabbrica di scarpe e una di conserva di pomodoro, e l´officina delle corriere, la Barbi, che era qui in centro». Carlo Barbi è ancora nel grande piazzale della sua fabbrica. «Mi sembra impossibile non potere entrare dentro, controllare, fare qualcosa, ma gli ordini si rispettano». Racconta la storia del nonno Galileo che 105 anni fa aprì l´officina per costruire birocci per i cavalli. Mostra con orgoglio i suoi pullman, che sul mercato costano dai 250.000 ai 300.000 euro. «Vede, noi alla difficoltà siamo abituati, ma questa volta è troppo grossa. Abbiamo lavorato per 25 anni per la Volvo, che poi all´improvviso ha deciso di fare costruire i pullman in Polonia. Abbiamo dovuto valorizzare il nostro marchio, crearci una rete commerciale, trovare i clienti, e ci siamo riusciti. Ci siamo solo noi, in Italia, a costruire pullman. Vede quei telai? Servono per allestire pullman per l´esercito, avevamo avuto la commessa pochi mesi fa. Oggi i danni sono pesanti, e non sappiamo ancora se i piloni centrali hanno retto. Senza un aiuto concreto, stavolta non ce la faremo. Con la Volvo avevo 100 dipendenti, ora ne ho cinquanta. Non posso togliere lo stipendio a 50 famiglie».
È dalle idee dei Mario Veronesi e dei Galileo Barbi che nasce la fortuna di Mirandola, 3,6 miliardi di fatturato nel settore manifatturiero. Biomedicale, alimentare e meccanico danno lavoro a 15.000 addetti. Il danno complessivo all´economia nelle zone del sisma è stimato al momento in due miliardi. Solo nel biomedicale si calcolano perdite per almeno 800 milioni. Sono crollate le ceramiche di Finale Emilia (4,2 miliardi di fatturato nell´intera provincia modenese, con 20 mila addetti), e le aziende come la Barbi fanno parte di quella metalmeccanica che nelle due province terremotate, Modena e Ferrara, supera gli 11 miliardi di fatturato. Sempre nelle due provincie, l´agricoltura produce 1,2 miliardi, l´agroindustria 6,2 miliardi. «Noi i danni non li abbiamo ancora calcolati – dice Giovanni Messori, del caseificio sociale 4 Madonne a Lesignana di Modena – ma sappiamo che sono perdute la metà delle nostre 33.000 forme di parmigiano». La Coldiretti ha fatto ieri una prima stima e i numeri sono pesantissimi: 500 milioni di danni nella food valley dell´intera zona terremotata, Parma, Mantova e Rovigo comprese. Qui, dove si produce oltre il 10% del Pil agricolo, ci sono 600.000 forme di parmigiano e di grana padano cadute dalle «scalere». «Hanno continuato a cadere anche oggi – dice Giovanni Messori – non più a causa del terremoto ma per l´effetto domino: una scalera si appoggia all´altra e i crolli non si fermano. Oggi abbiamo dovuto chiudere il nostro caseificio a Medolla, perché è stato tolto il gas».
L´auto dei vigili passa anche davanti alla B Braun Sharing expertise, settore biomedicale. «Noi non possiamo – dice Giuliana Gavioli, manager di questa multinazionale tedesca – restare fermi del tutto. Dopo la prima scossa siamo andati in un albergo, con i nostri uffici. E dopo tre giorni siamo rientrati in fabbrica, a pulire, tinteggiare… Dopo la scossa di martedì, stiamo montando una grande tenda nel piazzale. Speriamo che ce lo permettano. Se non manteniamo i contatti, se non assicuriamo i clienti, altre aziende negli Usa e nella stessa Germania sarebbero pronti a portarceli via. Abbiamo bisogno di aiuto, è vero. Ma soprattutto di sapere cosa dobbiamo fare, subito. E spero che lo Stato si dia da fare con lungimiranza, per fare capire alle multinazionali che ricostruire qui è nel loro interesse».
La Repubblica 31.05.12