È colmo di insidie e doppiezze, il modo in cui un gran numero di politici europei, e di economisti, e di esperti, sta prospettando l´uscita della Grecia dalla moneta unica. embra una preparazione razionale al peggio, ma i presupposti di una vera preparazione sono assenti: è del tutto inaudibile una critica autentica degli errori commessi, che corregga alle radici i vizi dell´euro e dell´Unione. Non vediamo che un vacuo oscillare tra falsi allarmi e false sicumere. A volte la secessione di Atene è temuta, per gli effetti finanziari che avrebbe; altre volte sembra in segreto propiziata, accelerata. Non è interpretabile diversamente, ad esempio, la decisione che il Fondo salva-Stati ha preso all´inizio di maggio, quando gli aiuti a Atene sono passati dai concordati 5,2 miliardi di euro a 4,2 miliardi: «un miliardo di olio bollente su una ferita aperta», scrisse Giuliano Amato sul Sole 24 ore del 13 maggio. Stessa apatica indolenza di fronte a un possibile no irlandese al Patto di bilancio (fiscal compact), nel referendum di oggi. Come sempre si correrà dietro la storia, senza farla.
Chi ha gettato la Grecia nel marasma ha volutamente giocato col fuoco, oltre che con un popolo, e ancora sorprende lo stupore causato dal voto del 6 maggio: una maggioranza parlamentare introvabile, il tracollo dei vecchi partiti, la necessità di indire – il 17 giugno – nuove elezioni. Viste le cose come stanno, si comincia a considerare fatale lo sfascio della moneta, e neanche così nefasto. Senza Atene si potrà forse salvare l´Euro, anche se rattrappendolo un po´. Meglio pochi felici – in un´eurozona ripulita – ben sorretti dal muro antincendio (il famoso firewall) che fermerà l´espandersi del male. Si può fare, dicono a Berlino e a Bruxelles: «È governabile».
Quel che inquieta, nei piani d´emergenza allo studio, non è la volontà di erigere muri. Prepararsi a neri scenari è saggezza, in politica, a condizione però che il male sia riconosciuto, detto, e non circoscritto ma proscritto. Altrimenti avremo barriere di carta, come l´esiziale linea Maginot che doveva immunizzare i francesi da assalti nazisti. Tale è l´odierno muro antincendio, e il motivo è chiaro: manca la coscienza che la crisi non è greca ma dell´intera Unione, e per questo il panico che regna ha qualcosa di sinistro. È un panico fatto di leggerezza, di ignoranza storica, di vuoti di memoria colossali. In cuor loro i capi europei sanno di mentire, quando dicono che non ci sarà contagio. Quando esibiscono tranquillità, come se tutto potesse continuare come prima, dopo il crollo greco o il no irlandese. La leggerezza è funesta, perché non è così che l´Europa ritroverà le forze e i cittadini la fiducia.
Chi prospetta un´uscita sopportabile di Atene sta occultandone il prezzo, e non valuta quel che significherebbe la disgregazione dell´euro. Troppo facilmente ci si consola, credendo nella favola che ci si racconta: l´eurozona che sopravviverebbe, l´Unione che resterebbe quella che conosciamo. Nella migliore delle ipotesi vengono enumerate le perdite finanziarie, alcuni evocano perfino una Banca centrale non più solvibile, ma a quel che sta nel fondo del pozzo non si guarda.
Anche economisti illustri giocano con l´Unione come fosse un algoritmo. Paul Krugman dice giustamente che l´euro s´infrangerà, vista la volontà d´impotenza degli Stati, ma subito aggiunge che non sarà il dramma paventato. L´Argentina nel 2001-2002 si sganciò dal dollaro, svalutò il peso, poi formidabilmente si riprese: perché non potrebbe accadere a Atene, e magari a Madrid, Lisbona, Roma? Dov´è scritto che l´Unione crollerebbe, se finisse un euro fatto così male, non sostenuto dalla fusione dei suoi Stati? Si può tornare allo status quo ante. Lo stesso Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri, spiega che l´euro non era una necessità economica, ma politica: strategicamente non se ne può fare a meno, ma tecnicamente sì.
Affermazioni simili sono un inganno: non dicono le cose come stanno. Proviamo allora a immaginare quel che succederebbe non solo nel medio periodo ma nel breve, se Atene tornasse alla dracma per poi svalutarla massicciamente. Non avremmo uno scenario argentino, perché Atene non dispone più di una moneta nazionale, e perché il mondo industrializzato è oggi in recessione. Un lungo periodo di transizione sarebbe necessario, per passare alla dracma, durante il quale occorrerebbe bloccare le frontiere, la libera circolazione dei capitali e anche delle persone.
Il trattato di Schengen, che abolisce i confini interni sostituendoli con un´unica frontiera esterna, verrebbe sospeso durevolmente. La svalutazione della dracma – domani della moneta spagnola, portoghese – scatenerebbe guerre commerciali. Anche per la Germania sarebbe una calamità: economica, politica, psicologica. Berlino è oggi una potenza perché leader di una moneta con peso mondiale. Ridotta a custodire il marco diverrebbe ininfluente. «Temo molto meno la potenza della Germania che la sua presente inerzia. Dovete diventare la nazione indispensabile d´Europa e non fallire nella leadership», ha detto il ministro degli Esteri polacco Sikorski in un discorso nella capitale tedesca il 28 novembre scorso. Berlino tornerebbe a esser guardata con rancore. Fischer mette in guardia la Merkel, nell´intervista al Corriere del 26 maggio: «Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell´ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo». La stessa cosa hanno detto negli ultimi anni due ex cancellieri: Schmidt e Kohl.
La rovina non sarebbe solo finanziaria. Sarebbe politica, culturale. È inutile evocare sessant´anni di storia europea a rischio, se non si specifica in cosa consista precisamente tale storia. Se non si dice la verità ai cittadini, su quel che perderemmo. Non saranno protetti da Stati nazione che recupereranno la sovranità, perché la sovranità è persa dal dopoguerra. L´euro fu necessario economicamente: non fu creato perché urgeva una penitenza politica dei tedeschi. La chiusura delle frontiere ci cambierebbe antropologicamente: ogni nazione rientrerebbe nel suo misero recinto, gli spiriti si rinazionalizzerebbero, la xenofobia diverrebbe un male banale.
La lunga educazione europea alla mescolanza di culture, alla tolleranza, all´apertura al diverso, si prosciugherebbe per decenni. Già sta accadendo, in un´Europa che ritiene patologico il debito greco e perfettamente sana la tirannide di Orban in Ungheria. Già in Francia Sarkozy ha sbandierato la xenofobia in campagna elettorale. In Grecia già cresce un partito nazista che saluta col braccio teso e promette di installare mine anti-uomo lungo i confini. L´Unione fu inventata contro i nazionalismi razzisti: l´invenzione franerebbe. Così come vacillerebbero le nostre costituzioni, figlie del clima che generò anche l´unità europea. A nulla servirebbe la Carta dei diritti che affianca il Trattato di Lisbona. Né i giudici né gli economisti salveranno, al posto dei politici e di ogni cittadino, la civiltà dell´Unione.
È il motivo per cui non credo che Atene uscirà dall´euro, e non solo perché i vecchi partiti greci risalgono nei sondaggi. Anche se vincesse la sinistra radicale, l´Europa non può permettersi disastri che cambierebbero la fisionomia dei suoi popoli. Molti responsabili lo sanno. Perché non parlano? La Germania si dice pronta a una Federazione. Il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, ha scelto la tribuna di Le Monde, il 26 maggio, per dire che se Parigi scegliesse la via federale e nuove deleghe di sovranità molte cose diverrebbero possibili, compresa la messa in comune dei debiti. Il silenzio di Parigi è rovinoso. Le due rigidità, francese e tedesca, congiurano contro la rinascita dell´Europa.
La Repubblica 31.05.12