Adesso di don Ivan ricordano un ultimo sorriso e le ultime parole. Lui si mette il caschetto di plastica blu. Rosanna lo prende in giro: «Ivan, ti faccio una foto?». Lui che risponde: «Sei scema?». Nemmeno dieci minuti da quando è dentro, nella sua chiesa già danneggiata e inagibile, insieme con due vigili del fuoco, e alle 9 arriva la scossa. Il tuono sotterraneo che mette i brividi. E tutto che si muove. Rosanna terrorizzata scappa nel parcheggio, inforca la bici e corre a casa dal marito Gino e dai figli. «Gino corri, corri. C´è Ivan là sotto». Muore così un prete bravo, molto amato, muore per salvare le cose preziose della sua chiesa. Una statua della Madonna, due busti di San Pietro e Paolo. Quattro candelabri. Reliquie ed ex-voto di Santa Caterina d´Alessandria. Don Ivan Martini, 65 anni fra un mese, originario di Cremona, è la vittima simbolo di questo nuovo terremoto che abbatte chiese e campanili fra Lombardia ed Emilia. Sono importanti i campanili in questa terra piatta, li vedi da lontano e sai che lì sotto, bene o male, c´è una comunità, c´è vita.
L´ultima foto di don Ivan gliela scatta Salvatore: amico d´infanzia, quasi fratello, coinquilino e sorta di badante. Si vedono di spalle i due vigili del fuoco, e lui davanti pure di spalle, col suo caschetto blu, mentre entra in chiesa. Quando la terra si ferma, la nuvola di polvere si posa, un pompiere esce barcollando imbiancato dai calcinacci. Si guarda intorno. Rientra a cercare il suo compagno. Escono in due. «E il prete, e don Ivan?», c´è Salvatore disperato. I due pompieri tornano dentro, e devono cercare qualche minuto prima di trovarlo sepolto dalle macerie. Afferrano un tappeto, ce lo appoggiano sopra per trascinarlo fuori. Lì, sulla piazza Giovanni XXIII, c´è un gran silenzio dice Salvatore. Lui è attaccato al telefonino: «Chiamo il 118, l´ambulanza, ma le linee sono fuori uso».
Niente ambulanza, bisogna arrangiarsi. Corrono sotto il tendone che sta dietro alla chiesa, portano un tavolo pieghevole di legno chiaro, e ci adagiano il prete come se fosse una barella. Gino porta il suo vecchio furgone, un Renault Trafic bianco, ci caricano don Ivan. Poi via a tutta velocità verso l´ospedale di Carpi, con la jeep dei pompieri davanti che ha la luce lampeggiante. Racconta Gino: «Siamo arrivati al pronto soccorso, è salito un infermiere che gli ha messo due dita sul collo per sentire la pulsazione. Ha scosso la testa ed è sceso. Gli sono corso dietro: ma come, nemmeno provate con un massaggio cardiaco? Intanto gli abbiamo pulito la faccia, e l´hanno riconosciuto: ma è don Ivan! Eccome se lo conoscevano, era una specie di cappellano dell´ospedale. Ma insomma, morto era morto già, e forse fin da quando l´han tirato fuori dalla chiesa».
In piazza a Rovereto, davanti al monumento dei caduti, c´è un tabellone con foto dei danni che il terremoto del 20 maggio aveva fatto alla chiesa. Le crepe sui muri e sul tetto. Quasi niente rispetto a quel che si vede adesso. La chiesa è intonacata di rosa, l´abside è spaccato in più punti. Il campanile in mattoni è sfregiato da una spaccatura verticale che arriva quasi alla bifora in cima. La cupola conica di tegole è smozzicata. E qui intorno, in un raggio di 15 chilometri, sono in tanti a rimirare sconsolati i resti delle loro chiese, e dei campanili abbattuti. Il duomo e la chiesa di San Francesco a Mirandola. Poco distante, nel mantovano, sono colpiti i campanili di San Benedetto Po, San Giovanni del Dosso, Poggio Rusco, San Possidonio, e la chiesa di Moglia. A Mantova è crollato il cupolino del campanile della basilica di Santa Barbara, accanto a Palazzo Ducale.
Dicono che don Ivan, dopo il terremoto del 20 maggio, fosse come a lutto per la sua chiesa. Già una volta ci si era infilato per salvare qualcosa. Poi aveva chiesto alla Curia di Carpi l´elenco delle cose preziose. È morto per andare, coi vigili del fuoco, a fare il piano per un salvataggio di quel che si poteva. Qui a Rovereto era arrivato dieci anni fa, lui che era della diocesi di Cremona era stato spedito come fidei donum, “in prestito” per dirla brutalmente. Faceva anche da cappellano alle carceri di Modena, e sosteneva una missione in Malawi. Su un blog di Novi, il comune di cui Rovereto è frazione, l´avevano paragonato a don Camillo, e dicevano come fosse afflitto per la perdita della sua “casa”.
Adesso i suoi scout si danno un gran daffare, perché la gente abbia qualcosa da mangiare. Daniele Viacci, 55 anni, è in perfetta divisa: braghe corte e calzettoni, cappello di feltro, fazzoletto al collo. Sua moglie Agnese pure: «Stamattina ero al lavoro, una società di brokeraggio a Modena. Alla scossa, sono corsa a casa e mi sono messa in divisa. È importante farsi riconoscere». Spignatta pasta col ragù, una pentolata da campo via l´altra: «Lo faccio per egoismo, così non devo pensare a cosa saranno i prossimi giorni». C´è un grosso tendone dietro la chiesa, l´avevano montato per una festa in programma il prossimo fine-settimana: «Per pagare i lavori della chiesa».
Tutta Rovereto è in strada. C´è una casa crollata a metà su via Chiesa, accanto al bar Dal Vré: si vedono una cucina spaccata a metà, una cameretta da bambino piena di pupazzi. Molte case hanno crepe impressionanti, e anche la Camera del lavoro. Ma nessuno ha il coraggio di tornare a casa sua, anche se non si vedono danni. E i pompieri comunque l´hanno vietato. Ciò significa che più di tremila persone dormiranno all´aperto, forse si monteranno tende per 3-400. Una colonna della Protezione civile, data in arrivo, ancora non s´è vista. Intorno ai tendoni si aggira Salvatore: «Per me Ivan era più di un fratello. Ero bambino in istituto quando i suoi genitori mi hanno preso sotto protezione. Ora non ho più lui, non ho più un lavoro, non ho più niente».
La Repubblica 30.05.12