C’è un pensiero, o meglio una domanda, che ultimamente mi perseguita quando penso alla politica italiana. Con tutto quel che è venuto fuori su Bossi, sua moglie, i suoi figli, compresa la laurea falsa del «trota» comprata in Albania, come è possibile che Bossi resti al comando? Come è possibile che anche quanti si ripromettono di ripulire e rifondare la Lega prendano seriamente in considerazione l’ipotesi di un partito con un segretario diverso (Maroni) ma con Bossi presidente della «nuova Lega»? Che cosa deve succedere perché un capo-partito venga non dico cacciato, espulso, punito, ma semplicemente archiviato? Che cosa fa sì che non si possa mai assistere a una battaglia politica che porti alla sostituzione di un vecchio gruppo dirigente con uno nuovo e diverso?
Questo genere di domande me le ero già fatte molte volte a proposito di Berlusconi e del suo partito, ma lì avevo una risposta: Berlusconi ha i cordoni della borsa, e ha sempre fatto attenzione a non dare spazio a persone troppo capaci o indipendenti da lui.
Che il Pdl senza Berlusconi rischiasse di implodere (come ora sta succedendo) è sempre stata per me una risposta soddisfacente alla mia istintiva e un po’ moralistica domanda: visto che ne combina di tutti i colori, perché i suoi non se ne liberano?
Ma con la Lega è diverso. Bossi non ha risorse economiche proprie (tanto è vero che usa quelle della Lega a beneficio dei suoi familiari), e inoltre non è circondato da figure chiaramente minori rispetto a lui stesso. Se volessero, i suoi potrebbero benissimo dirgli: caro Umberto, hai abusato della tua posizione, hai 70 anni suonati, ora fatti da parte che la Lega la prediamo in mano noi.
Mentre mi chiedevo perché non succede, ha cominciato però a ronzarmi un pensiero più radicale, una sorta di sospetto più generale. Mi sono venute inmente decinee decinedi situazioni,non solo nella politica, ma anche al di fuori di essa in cui succede la stessa cosa. La resistenza dei vecchi capi al cambiamento, e soprattuttola rinuncia dei giovani a dare battaglia, va molto al di là del recinto del centrodestra. Anche nelle imprese, nelle università, nelle fondazionibancarie, l’età mediadei capiè prossima ai 60 anni, ma soprattutto – questo è il fatto interessante – i quarantenni non danno battaglia. Aspettano. Attendono fatalisticamente che venga la loro ora. Una sorta di «sindrome di Carlo d’Inghilterra», che ormai 65enne non sa ancora se mai ascenderà al trono. Con la differenza che una posizione dirigente nella politica, nell’economia, o nella società non si eredita come un trono, ma si dovrebbe conquistarein base ai meriti guadagnatisul campo.
Ecco, i meriti. Forse questo è il punto. Forse la ragione per cui nessuno dà battaglia, anche quando avrebbe tutte le carte in regola per farlo, è che in Italia i capi beneficiano di un sovrappiù – di un anomalo e perversosovrappiù – di deferenza, di rispetto, di gratitudine. Una sorta di intangibilità, che fa apparire tradimento quella che altrove sarebbe giudicata una normale e fisiologica competizione fra gruppi e generazioni. Ma da dove deriva tale sovrappiù? Come siamo arrivati, un po’ tutti, ad esitare di fronte all’eventualitàdi intraprenderecerte battaglie?
La risposta è che in Italia si va avanti per cooptazione.Anchechi va avanti con pieno merito, ingenere può farlo solo perché qualcun altro – il «capo» – a un certo punto ha dato disco verde. Ha chiamato. Ha promosso. Ha coinvolto. Ha incluso. Ha ammesso nel clan, nel gruppo, nella rete, nel «cerchio magico». A quel punto è naturale per il cooptato maturare un senso di riconoscenza, di fedeltà, di lealtà, che gli fa percepire ogni possibile battaglia futura come un tradimento,una manifestazionedi ingratitudine. Questo meccanismo è così diffuso, così endemico, quasi scolpito nel nostro modo di sentire, che finisce per coinvolgere anche chi – in realtà – avrebbe tutti i numeri per dare battaglia, per promuovereil ricambio, per liberarci di personaggiche, con il passare degli anni, diventano un peso, se non altro perché non possono più dare il meglio di sé. Una singolareincapacità di «uccidere il padre», nel senso freudiano di diventare grandi e maturi, inquina e intorbida la vita del nostro Paese. Il padre non viene ucciso semplicemente perché gli dobbiamo troppo, se non tutto; e chi ha grandi debiti non puòessere libero,non soloineconomia.
Più che i padri che non lasciano il comando, colpisce il fenomeno dei figli che nulla fanno per prenderlo. Come se ereditare fosse l’unica modalità di successione che conoscono. E non si pensi che, in politica, il problema riguardi solo la destra. C’è una controprova clamorosa che non è così. Tu apri Radio Radicale e immancabilmente, quotidianamente, incappi in una esternazione di Marco Pannella. Un fiume di parole disordinato e sostanzialmente incomprensibile,almeno per personenormali.
Perché? Perché nessun politico radicale ha mai seriamente conteso la leadership all’ultra-ottantenne Pannella?
Qui non c’entrano i soldi, non credo che Pannella finanzi il suo movimento politico. Non credo che i radicali abbiano fatto particolare attenzione a escludere persone capaci. Non credo che, ad esempio, a Emma Bonino manchino le qualità per assumere la piena leadership dei radicali. Eppure non è mai successo. Non succede. Non succederà. La deferenza verso i capi, la sottomissione all’autorità dei cooptanti, è così profonda, in Italia, da coinvolgere persino i radicali, ovvero il più anti-autoritario, il più libertario, il più laico fra i gruppi politici italiani. Per non parlare del Pd, dove un gruppo di colonnelli 60enni controlla il partito da un quarto di secolo, i futuri premier vengono decisi a tavolino (ricordate le primarie finte per Prodi?), e i rarissimi casi anomali – come quello di Matteo Renzi, che ha sfidato apertamente il partito – sono visti con un misto di irritazione, insofferenza, fastidio. Né, forse, è solo un caso che le uniche novità importanti e relativamente giovani del panorama politico italiano – il movimento Cinque Stelle e Italia Futura – abbiano avuto bisogno, per venire al mondo, di due levatrici non precisamente giovanissime,ovvero il 64enne Beppe Grillo e il 65enne Luca Cordero di Montezemolo.
Che cosa dobbiamoattenderci,dunque? Forse esattamente quel che potrebbe succedere in Inghilterra,dove ormai è più probabile che il trono della vecchissima regina Elisabetta (86 anni) passi al giovanissimo principe William (30) che non al vecchio Carlo (65), «principe del Galles». La generazione dei Fini, Casini, Maroni,Bonino ha atteso troppo a condurre le proprie battaglie. Quando ricambio ci sarà, è più facile che a imporlo sianoi 30-40ennidi oggi. Specie quelli che hanno meriti e capacità proprie, e non debbono ai vecchi le posizioni che occupano.
La Stampa 27.05.12