Sbaglia chi sottovaluta l’importanza della nostra vittoria elettorale. Capisco tutti i «se» e tutti i «ma» ma certi fatti sono impressionanti. Per esempio il fatto che tutte (o quasi) le città del Nord, il famoso Nord delle partite Iva e del triangolo industriale nel quale si diceva che la sinistra (questa sinistra così stupida, così antipatica, così inesistente) non poteva più mettere piede, sono governate dal Pd. Cambia qualcosa del volto dell’Italia. Vedo anche che questo Pd, così stupido, così antipatico, così inesistente, si colloca ormai al centro della situazione politica in quanto è il solo in grado di aggregare le forze democratiche e può portarle nella nuova corrente riformista che finalmente si sta formando in Europa e che ricomincia a vincere. Per cui cambiare diventa possibile.
Vedo tutto questo. Ma il risultato elettorale suscita in me anche altri pensieri. Il principale è se noi siamo all’altezza della situazione. In altre parole, se siamo in grado di rispondere all’interrogativo cruciale, davvero drammatico che si è riaperto a questo punto della nostra storia repubblicana. Dove va l’Italia? Il mio sia chiaro non è il dubbio di uno scettico. Io credo nel Pd. La mia domanda nasce dalla consapevolezza che la sfida del governo non si giocherà solo sul terreno delle tradizionali dispute politiche. La partita che la grande crisi ha aperto è quella della ridefinizione del destino della nazione. Si tratta quindi del futuro delle nuove generazioni.
A me sembra questo il problema centrale. Dove sta andando l’Italia? Fino a che punto la sua compagine statale e il tessuto dei valori civili che fino ad ora hanno garantito il nostro comune cammino sono in grado di reggere? Profondamente scossi come sono da qualcosa che è molto più grande della pochezza dei partiti (anche). È il fatto di cui le tv non parlano. È la grande questione della sopravvivenza della democrazia moderna e della civiltà del lavoro, del diritto delle persone e dei popoli di potersi realizzarsi e di decidere del proprio destino, che è minacciato dal potere inaudito e senza controllo di una oligarchia finanziaria che muove a suo piacere le ricchezze del mondo. Vogliamo chiederci chi sta muovendo la guerre alla costruzione europea, in quanto solo altro potere possibile?
Così io guardo all’Italia. C’è Grillo, c’è il qualunquismo, ci sono proteste distruttive. Ma non c’è solo questo. Dietro l’inquietudine profonda dei giovani e il loro distacco dalla politica, dietro il loro disprezzo per i vecchi partiti c’è il fatto come notava Ilvo Diamanti che si stanno facendo strada domande di segno nuovo. Le quali esprimono istanze critiche verso i valori del neo-liberismo imposti dai «mercati» finanziari globale. Io credo che noi sottovalutiamo questa grande novità non soltanto economica. L’avvento della finanziarizzazione ha creato un diverso e più stretto rapporto tra la nuda vita e l’economia. Si parla (giustamente) della pochezza e delle malefatte dei partiti.
Ma è evidente che la riduzione dello spazio della politica ha portato a un lento degrado morale e culturale, al declino delle protezioni sociali e alla crisi dei sistemi scolastici e formativi. Con l’indebolimento delle istituzioni e dello spazio pubblico, la cittadinanza è stata degradata al potere d’acquisto e la crescita degli esseri umani ridotta alla stimolazione degli istinti peggiori. In fondo, si riscopre una semplice verità. È vero che l’uguaglianza senza libertà dà luogo al dispotismo, ma la libertà senza uguaglianza crea sfruttamento, ingiustizia e regressione sociale, minacciando di spezzare la parabola della democrazia contemporanea.
Se questi sono i problemi come pensiamo di parlare ai giovani che protestano se non diamo un significato alla loro vita e al loro bisogno di libertà? È evidente che la nostra proposta politica deve tradursi chiaramente nell’appello anche di Napolitano perché siano i giovani stessi a prendere in mano il governo del Paese. Ha ragione D’Alema quando dice che la vittoria di forze come quelle di Grillo ci butterebbero fuori dall’Europa e condannerebbero l’Italia alla miseria e al fallimento. Ma tanto più allora spetta a noi, nel momento in cui diciamo alla povera gente che è giusto affrontare seri sacrifici, senza indicare uno scopo. Un grande scopo. Qui sta il punto. Il riformismo non è solo la concretezza ma è la combinazione di questa con l’utopia. Abbiamo tanto citato Max Weber e la sua etica della responsabilità ma forse ci siamo un po’ dimenticati dell’altro suo monito secondo cui nulla sarebbe possibile se non tentassimo l’impossibile. Senza cioè una visione nuova del mondo.
La sfida che il Pd lancia a tutti gli altri soggetti politici (Grillo compreso) non è la foto di Vasto o quella con Casini: è la ricostruzione su nuove basi del Paese. Ma ciò che io voglio sottolineare è che questa sfida, per funzionare, deve essere anche concepita come una sfida che riguarda la ricostruzione di noi stessi in quanto partito.
I partiti non possono più essere quelli di prima. È il loro rapporto con la società che è cambiata, nel senso che essi non sono più auto sufficienti ma devono misurarsi con il nuovo bisogno di protagonismo della società e quindi con le culture e i movimenti che la innervano. Il problema è come assolvere a questa funzione a fronte del cinismo della destra e del suo miserabile cotè giornalistico e intellettuale. Nella mia lunga vita (tranne l’8 settembre) non avevo mai visto un così grande sfascio, fino alla polverizzazione, di ciò che era stato per vent’anni ben più che l’alleanza tra 2 partiti (Lega Nord e Berlusconi).
Era stato l’asse del Nord. Quasi un blocco storico, sorretto da una idea sia pure meschina dell’Italia. Dopotutto Bossi e Berlusconi fornivano le truppe ma le idee erano quelle della vecchia classe dirigente: una casta volta a volta craxiana, leghista, ciellina con dietro la grande banca milanese e il salotto buono del Corriere della Sera. Un’idea meschina ed economicistica incapace di una visione nazionale: il Mezzogiorno, popolo di ladri e di sfaticati, visto come un peso insostenibile per il Nord che lavora.
Questa idea ha fatto fallimento e si è creato un vuoto. Io non so chi a destra occuperà questo vuoto. So che noi ci candidiamo a guidare il Paese in nome di un disegno di ricostruzione. Una unità d’Italia posta su nuove basi. Certo non potrà essere «un Paese per vecchi», né per soli uomini. Qui sta il mio assillo.
Un «partito della nazione» è tale solo se interpreta ed esprime gli interessi delle nuove generazioni. Io sono vecchio. I miei nipoti parlano perfino un’altra lingua: quella del web. Mi si consenta però una analogia. Io ricordo come parlò il Pci a noi giovani di allora. Ci chiamò a dare una risposta al grande interrogativo di allora, che però era simile a quello di oggi. Dove va l’Italia?
l’Unità 25.05.12