C´è ancora spazio per una politica progettuale in Occidente? Dopo la stagione riformatrice guidata dalla terna Clinton-Prodi-Blair sarà la volta di Obama-Hollande-Monti? L´analogia tra i due tempi del riformismo occidentale ha fatto timidamente capolino in alcuni blog stranieri in coincidenza con il recente summit di Chicago che ha, da un lato, rilanciato il ruolo internazionale del nostro paese e, dall´altro, decretato la sconfitta dell´austerità senza espansione. Il bisogno di immaginare una nuova strada dove sicurezza sociale e libertà riprendano a marciare insieme non è solo dell´Europa. Gli Usa non ne hanno meno bisogno. Senza giri di parole, soprattutto dopo la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali del partito della Merkel, un nuovo New Deal sembra meno utopistico oggi di quanto non lo fosse qualche mese o poche settimane fa. L´opinione pubblica è sempre più convinta che i governi debbano riprendere in mano la progettualità sociale ed economica e soprattutto togliere alla agenzie private di rating il potere arbitrario della reputazione (e della sfiducia). I governi sembrano meno entusiasti dell´opinione dei loro paesi ma non è chi non veda che è nel loro interesse riaffermare l´orgoglio della politica democratica come fece il governo federale americano quando negli anni ´30 e ´40 lanciò una campagna poco tenera contro i “grandi papaveri della finanza”.
Il bisogno di un nuovo New Deal pare far breccia anche in Europa, costringendo governi poco immaginativi a rivedere la loro tradizionale percezione della politica europea come non-politica o, al massimo, politica-cerotto. Di fronte al bivio di perire o riprendere il filo interrotto della costituzione politica, è probabile che la necessità riesca a fare ciò che la volontà è stata fin qui incapace di fare: dare corpo al progetto di un´Europa politica democratica. Al progetto federale. Dove ispirarsi se non agli anni Trenta in America, dove la distruzione fu come oggi causata non da una guerra ma dalla mancanza di regole e di governo dell´economia. Allora, la depressione causò migliaia di suicidi e una disoccupazione che in due anni passò dal 6% al 25%. L´emergenza fu domata con la politica non dell´eccezione ma della progettualità sociale. Nacque così la democrazia che è a noi familiare.
New Deal vuol dire “nuovo patto” fra il governo e i cittadini. Quando venne messo in cantiere, in due fasi, tra il 1933 e il 1938, non c´era ancora la guerra ma la distruzione del sogno americano era già iniziata da qualche anno. Franklin Delano Roosevelt fece comprendere ai suoi concittadini che c´era un solo modo per rispondere all´emergenza: diventando più, non meno, democratici. In Europa, già sotto il tallone dei totalitarismi, a comprendere per primi questa sfida furono i liberal-socialisti italiani. In articoli illuminanti di Carlo Rosselli e di alcuni collaboratori dei “Quaderni di Giustizia e Libertà” venivano nei primi anni ´30 messi nero su bianco i criteri che, dopo la guerra, avrebbero consentito ai paesi europei di ricostruirsi su basi democratiche: primo fra tutti la responsabilità del governo di garantire la sicurezza sociale e la libertà.
Tre libertà furono messe in campo da quei visionari: quella politica, quella civile e quella economica. Per far sì che queste tre libertà operassero insieme essi compresero che occorreva garantire tre sicurezze: l´azione del governo, la responsabilità dei cittadini, le garanzie economiche o del lavoro. Il problema che si era posto il presidente Roosevelt era di fare interagire queste tre libertà e queste tre sicurezze, usando le istituzioni non come guardiani inattivi. La strategia fu una sinergia federativa, politica e sociale.
L´esito del New Deal, un programma non tanto di incentivi all´occupazion ma di creazione di lavoro (per infrastrutture soprattutto, ma non solo) da parte del governo, fu l´opposto di quel che i suoi nemici liberisti temevano: uno stato democratico. E in effetti, Roosevelt dovette convincere i suoi concittadini che egli non aveva alcuna intenzione di diventare un dittatore, che guidare uno Stato non-interventista non era la stessa cosa che dar vita al fascismo. E così pure Rosselli, che proprio in quegli anni chiarì la differenza tra stato democratico che interviene nell´economia e dittatura o totalitarismo.
Di qua e di là dell´Oceano (benché in diversissime condizioni) venne messo in quegli anni in piedi l´architrave di una concezione bipolare del liberalismo: uno non-interventista e indifferente alla democrazia, e uno sociale e naturale alleato della democrazia. La differenza tra i due stava proprio nel modo di interpretare la libertà. E la domanda che pose Roosevelt era molto ben posta: siamo sicuri perché siamo liberi o siamo liberi perché siamo sicuri? Che cosa deve fare un governo democratico perché la sicurezza della libertà dei suoi cittadini sia vissuta, non solo sancita?
Nella repubblica federale americana l´esito della grande depressione fu l´irrobustimento della democrazia e il rafforzamento della solidarietà: la realizzazione di quella “più perfetta unione” enunciata nella Dichiarazione di Indipendenza. L´esito fu la reinterpretazione del liberalismo come “libertà dalla paura” non dello Stato, ma, ora che lo Stato democratico era costituzionale, dell´irresponsabilità di alcuni a scapito dell´interesse generale. Salvare la democrazia dal collasso del capitalismo senza regole fu la scommessa vinta dal primo New Deal, l´architrave della nostra democrazia. È ragionevole pensare che la rinascita della legittimità democratica in Europa richieda un nuovo New Deal.
La Repubblica 24.05.12