Le elezioni amministrative hanno certificato una crisi di sistema. Il bipolarismo della Seconda Repubblica – che Berlusconi era riuscito a modellare attorno al proprio impianto populista – si è sgretolato. Dove c’erano l’asse del Nord, il centrodestra senza confini a destra, il blocco sociale che contrapponeva la libertà alla stessa idea di «pubblico», ora c’è un grande vuoto. Il Pd, rimasto il solo partito nazionale tra le macerie, conserva una massa critica e una capacità di coalizione che appare oggi come la risorsa estrema, su cui ricostruire una competizione democratica. Il suo successo è indubbio, se misurato in termini relativi. Ma a nessuno sfugge che si tratta di un successo fragile.
Lo ha dimostrato anche la facilità con cui gli elettori del centrodestra e del centro hanno dirottato al secondo turno i loro voti sui candidati grillini. La protesta radicale, la carica anti-establishment, il rifiuto della mediazione politica sono un’onda montante: contengono certo una domanda di rinnovamento, ma la travalicano. Se non è stata la prima scelta, l’opzione Grillo è diventata quantomeno a Parma il second best per quasi tutti gli elettori non-Pd.
Si potrebbe dire che la cultura di Grillo è stata alimentata per anni dallo stesso Berlusconi. Che l’antipolitica da noi è arrivata al governo ben prima delle Cinquestelle: con un premier in carica che detestava pubblicamente la Costituzione e il «teatrino» dei partiti, con un leader che alzava l’ampolla del dio Po mentre era ministro della Repubblica, con una propaganda martellante sulle intenzioni anti-sistema, anti-euro, anti-tasse da parte di chi invece era chiamato a governare la cosa pubblica. Tutto questo è vero. Come è vero che Grillo, d’ora in avanti, dovrà amministrare da professionista della politica un partito vero e proprio. Ma ciò non consola, né indica la via d’uscita.
Non esiste una soluzione politologica alla crisi di sistema, perché questa è legata a una profonda crisi sociale. E la politica – prima ancora di mostrare la propria debolezza nell’esprimere alternative legittime, plausibili, europee da sottoporre agli elettori – appare anzitutto inefficace a ridurre le diseguaglianze, a regolare le forze del mercato, a sottomettere il potere della finanza, ad affrontare le crisi concrete delle persone, delle famiglie, delle imprese. È vero che la storia non si ripete, ma la fotografia di oggi ricorda quella del ‘93, quando il collasso del sistema politico si combinò con riforme incompiute, con l’emergere di nuovi partiti, con grandi sommovimenti sociali, con inedite minacce criminali.
Il Pd e il centrosinistra non devono ripetere oggi gli errori commessi allora da altri. La vittoria di Grillo e la sua totale ostilità ad ogni alleanza aiutano a tenere alta la guardia. E anche ad affrontare con umiltà le domande di cambiamento che provengono da ogni parte della società, a partire da quanti patiscono di più le ingiustizie della crisi. Nessuno può pensare di farcela da solo. Le riforme istituzionali ed elettorali sono necessarie e urgenti: tornare a votare con il Porcellum vuol dire, con ogni probabilità, condurre al fallimento anche la prossima legislatura. È un rischio democratico che nessuna persona responsabile può correre. Nelle classi dirigenti del centrodestra, attraversate dalla paura e certe della sconfitta, qualcuno spera che muoia Sansone con tutti i filistei. Ma i peggioristi vanno sconfitti. Meglio una riforma non perfetta che la conservazione dello status quo.
Il nodo più difficile da sciogliere tuttavia riguarda le politiche contro la crisi. Negli spazi angusti imposti dall’austerity europea c’è poco ossigeno per recuperare alla politica quell’utilità sociale che i cittadini giustamente pretendono. Il governo dei tecnici è nato in questa congiuntura, stretto tra una necessità (recuperare all’Italia un po’ di credito perduto) e una impossibilità (attuare davvero politiche di crescita). Ma ora, con la vittoria della sinistra in Francia e con il pressing di Obama sull’Europa, può aprirsi un campo più ampio di azione.
Il rinnovamento di cui tutti sentiamo il bisogno non ha solo un carattere generazionale. Il tema è cambiare insieme il contenuto delle politiche. Altrimenti se diventa solo un problema di maschere, il teatrino dei comici non darà risultati migliori del precedente. Crescita, equità, lavoro, forte legame con quella parte di Europa che punta all’integrazione e agli investimenti dopo il fallimento dei governi di centrodestra. Questa è la sfida. La priorità non è costruire uno schema astratto di alleanze, come i progressisti nel ’93: sulle macerie tutto diventa fragile e i vuoti possono essere occupati da nuovi avventurieri. La priorità non è neppure cercare nelle primarie una nuova fonte battesimale (stavolta si è dimostrato che le primarie possono anche produrre disastri quando vengono usate per regolare conflitti tra partiti o scelte tra coalizioni diverse). La vera priorità è il progetto per la ricostruzione del Paese. La leadership è la garanzia del legame con i progressisti europei. Il rinnovamento degli uomini e delle classi dirigenti, indispensabile come in ogni passaggio di sistema, non può, non deve essere disgiunta da una nuova idea di pubblico, di comunità, di Europa. La moralità dell’azione politica ovviamente comincia dall’uso trasparente e morigerato delle risorse, dal principio di legalità – e positive sono state ieri le votazioni alla Camera – ma la prova decisiva sarà nella capacità di ridurre davvero le diseguaglianze tra i cittadini.
l’Unità 23.05.12