Grillo è un Gabibbo barbuto e il Movimento Cinque Stelle la trasposizione politica di «Striscia la Notizia»? La suggestione esiste, inutile negarlo, ma è solo parziale. Grillo è anche il Gabibbo. Un Gabibbo, però, che guarda «Report», ha letto «La Casta» e sa stare sul Web. I due hanno in comune la cadenza, ligure, e l’ideatore, Antonio Ricci, di cui Grillo è stato a lungo il ventriloquo tv. «Fantastico», «Te la do io l’America», «Te lo do io il Brasile»: l’unico programma di successo che Ricci non gli ha curato è «Te la do io l’Italia». Quello se lo sta scrivendo da solo. Se Grillo ricorda il pupazzo rosso che svergogna i potenti tra ghigni e sberleffi, l’attivista-tipo del Cinque Stelle assomiglia a uno di quegli inviati di «Striscia» che consegnano tapiri: informato, tignoso, sfacciato. Quanto all’elettorato, ne esiste uno cresciuto con le tv berlusconiane che da anni si abbevera ai programmi satirici di denuncia e ha finito per introiettarne meccanismi e valori. «Striscia» e «Le Iene» si pongono come giustizieri della notte, raddrizzatori di torti, vendicatori degli oppressi in contrapposizione a un Potere che magnanimo li finanzia attraverso la pubblicità. Secondo lo studioso dei media Massimiliano Panarari, il loro segreto consiste nel dare sfogo al rancore popolare verso un sistema concepito come nemico. Ai seguaci di «Striscia» il movimento di Grillo non sembra antipolitica, ma politica: difesa del cittadino. In realtà, sostiene Carlo Freccero, il termine corretto è Apolitica: il rifiuto dei partiti, ormai ridotti a meri comitati d’affari. E qui l’albero genealogico del grillismo si allarga a «Report» di Milena Gabanelli e al bestseller «La Casta» di Stella e Rizzo.
"Report" è la versione sofisticata della tv di denuncia, il Gabibbo in bella copia, il grande giornalismo d’inchiesta. Gabanelli incarna l’archetipo grillista del Controllore, colui o colei che incrocia i dati, macina le informazioni e rivela i segreti del Moloch che ci condiziona la vita, sia esso una multinazionale di farmaci o un assessore arrogante e corrotto. Il milione di copie de «La Casta» è stato un fenomeno sociale che la cultura in ghingheri non ha voluto capire, forse perché gli artefici non erano due intellettuali spocchiosi e incomprensibili, ma due bravissimi giornalisti. Stella e Rizzo hanno dato sostanza di pagine al mal di pancia verso i partiti e il loro sistema chiuso di privilegi. Cosa accomuna lo spettatore di «Striscia» a quello di «Report» ed entrambi al lettore de «La Casta»? L’idea che destra e sinistra siano diventate la stessa cosa: se non nei valori, nel personale politico che ha smesso di incarnarli per dedicarsi esclusivamente alla gestione del potere.
Le radici televisive del grillismo affondano qui e gli hanno sicuramente creato un pregiudizio di simpatia fra gli elettori, anche fra coloro che non lo votano. Di fronte a questo pregiudizio positivo vacillano i dibattiti sul sistema elettorale. Il doppio turno, infatti, funziona quando l’avversario è percepito come una minaccia (un leghista per un democratico, un «comunista» per un berlusconiano) e spinge l’elettore avverso alle urne per incoronare il male minore. Ma il Movimento Cinque Stelle non fa davvero paura a nessuno, semmai suscita curiosità. Così si spiega perché al ballottaggio di Parma il candidato del centrosinistra non sia riuscito nemmeno a fare il pieno dei voti presi al primo turno: migliaia di suoi elettori non hanno sentito l’urgenza di tornare alle urne. Magari in cuor loro si saranno persino augurati il trionfo della «novità».
Ma Grillo e il grillismo non si esauriscono nei vecchi mezzi di comunicazione, parola cartacea e tv. Il Cinque Stelle non si può capire senza la «class action», quel fenomeno importato dagli Stati Uniti che induce le vittime di un medesimo torto a unire le proprie forze e a fare causa comune contro il potere che le ha defraudate di qualche diritto. Il berlusconismo era delega passiva al demiurgo. Il grillismo è assunzione collettiva di responsabilità. Il berlusconiano votava col telecomando, l’attivista di Grillo (non chiamiamolo grillino) con la tastiera del Web. I seguaci di Berlusconi cercavano di assomigliare al Capo fin dalle barzellette, mentre quelli di Grillo non assomigliano a Grillo: nell’approccio sono molto meno televisivi e molto più seri. Il mito fondante del Movimento Cinque Stelle, solo in questo simile all’Uomo Qualunque di Giannini, è il Buon Amministratore. Persa la speranza di sottrarre il mondo alle trame dei grandi capitalisti, il grillismo chiede alla politica di diventare apolitica, cioè di limitarsi all’ordinaria amministrazione. Perciò la politica potrà salvarsi solo se smentirà Grillo, ricominciando a fare sogni grandi. Altrimenti il Gabibbo barbuto trionferà, così come «Striscia» trionfa da vent’anni contro una Rai che ha saputo, o voluto, contrapporgli sempre e soltanto dei Pacchi.
La Stampa 22.05.12
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“Il Comico e il Cavaliere”, di FILIPPO CECCARELLI
E adesso non è per assecondare la mania; non è più tempo, oltretutto, di imputare a Silvio Berlusconi, sempre e comunque, tutto ciò che accade in Italia. E però.
Però, con il necessario distacco, e un filo di sorpresa per gli esiti beffardi che riserva la cronaca elettorale, è certo possibile ipotizzare e in qualche modo anche sostenere che la vittoria di Beppe Grillo se l´è chiamata proprio lui, il Cavaliere, pardòn lo «Psiconano», e per giunta in ideale e funzionale continuità. Detta altrimenti: nessuno più di lui gli ha preparato il terreno, e con il miglior concime possibile.
Aspettino un attimo, i grillini, prima di indignarsi. Idee, passioni, speranze e programmi del M5S non c´entrano nulla con Berlusconi. Ma sappiano anche che l´ex premier, sia pure con quel tanto di vampiresco tipico degli uomini di potere, si guarda bene dal demonizzare Grillo. Tutt´altro. Lo conosce da una vita, è da un po´ che lo studia e in privato dice anche di apprezzarne la «lezione», soprattutto sul piano comunicativo, su cui peraltro lui non si può considerare un principiante. Alcuni dei suoi vanno oltre: tra i primi ha osato il paragone il direttore del Giornale Sallusti; mentre il coordinatore del Pdl lombardo Mantovani (per capirsi: quello che da sindaco ha dedicato un monumento a Mamma Rosa) l´ha detto chiaro e tondo: «Grillo mi ricorda il Berlusconi del ‘94». Giulianone Ferrara è più problematico, ma l´altro giorno ha scritto un´analisi molto sottile e convincente sul fatto che entrambi, l´Attore e il Cavaliere, sentono il bisogno di combattere la noia e quindi di cambiare identità, mestiere, esistenza, insomma tutto.
E però la faccenda è anche ben politica. E dice che Grillo non farebbe così paura se l´Italia non uscisse proprio adesso da quella che il senatore-professore Quagliariello, con intenti cerimoniosi, designò a suo tempo come «l´età berlusconiana». Nella storia del potere, in effetti, non mancano mai gli apprendisti stregoni. E per tornare all´oggi si tende a dimenticare che Beppe Grillo è un professionista dello spettacolo, e ancor più un comico.
Ecco. Con tutto che pure questo può suonare per tutti come uno scomodo ricordo, mai come dinanzi al trionfo grillino torna in mente l´immane, incredibile quantità di battute, battutine, scene, scenette, barzellette, vocette, e scherzetti, doppi sensi, imitazioni, mimi, cucù di cui si è nutrita la vita pubblica nella suddetta età – senza contare il contributo di Bossi e della commedia eroicomica padana.
Ora, il potere del giullare viene da lontano e se in tempi di riemersioni arcaiche ritorna con i dovuti aggiornamenti, vorrà pure dire qualcosa. Ma è sicuro e si può documentare che ridere e far ridere è stata per l´ex presidente del Consiglio un´occupazione terribilmente seria. La cifra e il segreto che rendevano Berlusconi unico e inconfondibile. C´è un libro assai convincente, Il re che ride di Simone Barillari (Marsilio, 2010) che in maniera abbastanza neutrale mette a fuoco la comicità del Cavaliere per concludere che si tratta di un sistema usato per lanciare messaggi e costruire il senso e il consenso. Uno strumento di dominio, insomma, ma anche un mezzo di sottomissione.
Vale la pena di ripeterlo: la politica è fatta di interessi reali, e Grillo non è Berlusconi. Ma se sul piano dei contenuti i due restano inconciliabili, su quello delle forme, dei simboli, delle rappresentazioni e di tutto quanto fermenta nel pentolone dell´immaginario, hanno parecchio in comune. Anche troppo. Un approdo da autodidatti della politica. Un partito personale. Un evoluto modello carismatico. Un afflato populista, anzi tele-populista. Un che di ribaldo, di piratesco, di sovversivo addirittura, che consente al grande pubblico indifeso di identificarli come personaggi che hanno dichiarato guerra al sistema.
L´uso dell´umorismo investe ovviamente il linguaggio: ma è esattamente la loro padronanza a rendere sia Grillo che Berlusconi del tutto invulnerabili dinanzi all´arma del ridicolo. Con il che possono dire qualsiasi cosa e sostenere qualsiasi sguardo. Inoltre entrambi parlano facile, somministrano volgarità, si rivolgono alla pancia, si esprimono con il loro stesso corpo, cambiano costume di scena e la loro migliore virtù consiste nell´abilità di riscaldare l´atmosfera, non di rado suscitando meraviglia. Più che soluzioni, del resto, sollecitano emozioni.
In qualche modo si può pensare che Berlusconi ha seminato ciò che Grillo si appresta a raccogliere nello stesso campo. Eppure, più che una somiglianza, l´impressione è che si tratti di un superamento. Ma qui c´entra la tecnologia, molto più forte di qualunque potente. Grosso modo, ogni epoca ha il suo mezzo di comunicazione che a sua volta seleziona leader e sagoma modelli di potere. Il Cavaliere è padre e figlio della televisione; il Comico ha la stessa complicata parentela con la rete. Uno è verticale, ma in uscita; l´altro orizzontale, in entrata. In questi casi si spera in un miglioramento, ma poi bisogna sempre vedere.
La Repubblica 22.05.12