Caro direttore, le ombre cupe che in vita si addensarono sulla testa di Giovanni Falcone, a causa dell’incisività della sua azione antimafia, sono storia. Spesso dimenticata ma storia. Ricordarla significa illuminare di luce vivida la straordinaria figura di un magistrato che per senso del dovere seppe perseverare con tenacia, nonostante fosse consapevole di rischiare la vita.
Ancora a metà degli anni Settanta c’era chi osava scrivere: «La mafia ha sempre rispettato la magistratura, si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine». E non erano parole di uno sprovveduto qualunque, ma di un alto magistrato della Cassazione, Giuseppe Guido Lo Schiavo. È evidente che «ragionando» così era sempre la mafia a vincere. Falcone la pensava diversamente e con gli altri magistrati del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo, diretto da Nino Caponnetto, elaborò un metodo di lavoro imperniato su specializzazione e centralizzazione: il cemento armato di un capolavoro investigativo-giudiziario, il «maxiprocesso» del 1986. Per la prima volta nella storia d’Italia vengono portati alla sbarra — con prove sicure — mafiosi siciliani di primaria grandezza criminale che fino ad allora avevano potuto godere di una sostanziale impunità. La fine del mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra: 475 imputati per associazione mafiosa, 120 omicidi e innumerevoli altri reati; 360 condanne per un totale di 2.665 anni di carcere e diciannove ergastoli comminati ad alcuni tra i boss più influenti di Cosa nostra.
Un’esperienza vincente del genere qualsiasi Paese l’avrebbe difesa con le unghie e con i denti. L’Italia invece no. Vergognoso ma vero, Falcone e il pool furono letteralmente spazzati via, professionalmente parlando, a colpi di calunnie ossessivamente ripetute: professionisti dell’antimafia; impiego spregiudicato dei «pentiti»; uso politico della giustizia. Guarda caso la tempesta si scatenò quando il pool cominciò a occuparsi — oltre che di mafiosi di strada — dell’ex sindaco di Palermo Ciancimino, dei cugini Salvo e dei cosiddetti Cavalieri del lavoro di Catania. Insomma di quella «zona grigia» che è la spina dorsale del potere mafioso, perché assicura coperture e complicità a opera di pezzi della politica, dell’economia e delle istituzioni. Sul banco degli imputati finì Falcone: osannato da morto, umiliato da vivo.
Un ruolo centrale, in questo quadro, ha avuto il Csm (Consiglio superiore della magistratura) quando anch’io ne facevo parte (1986-90). Nel 1987 Caponnetto decise di lasciare l’Ufficio istruzione di Palermo nella certezza che il suo successore naturale sarebbe stato Falcone. Non fu così. Alla candidatura di Falcone si contrappose Antonino Meli, magistrato di ben maggiore anzianità che di mafia però non si era mai occupato. E il Csm (ribaltando l’orientamento adottato qualche mese prima per la nomina di Borsellino a Procuratore di Marsala) scelse non il più bravo nell’antimafia, ma il più anziano, anche se digiuno di processi di mafia. Meli — si badi — aveva presentato anche domanda per la presidenza del Tribunale. Qualcuno però lo convinse a ritirarla per puntare tutto sul posto di capo dell’Ufficio istruzione, una sezione del Tribunale. Ora, il rapporto tra i due ruoli è lo stesso che può esserci tra la direzione di un grande quotidiano e la rubrica della posta del cuore su un foglietto parrocchiale. Non tanto perché l’Ufficio istruzione non fosse un posto importante, semplicemente perché si era alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (1989) che quell’ufficio avrebbe soppresso. La bagarre, dunque, non era tanto su chi dovesse succedere a Caponnetto. Anche, ma non solo. Un obiettivo di fatto era anche lo smantellamento del metodo di lavoro del pool, che aveva portato alla clamorosa vittoria del maxiprocesso e che difatti Meli (coerente col programma preannunziato allo stesso Csm) smonterà pezzo per pezzo. Invece di continuare lungo la strada della vittoria, lo Stato si ferma. Circondata la fortezza, si ritira rinunciando a espugnarla. Mentre sul Palazzo di giustizia di Palermo volano corvi che spandono veleni di ogni sorta su Falcone, calunniato per nefandezze varie. Ovviamente inesistenti. E fu allora (parole di Borsellino) che Falcone cominciò a morire.
Nel 1989 Falcone, soppresso l’Ufficio istruzione, concorre al posto di Procuratore aggiunto (una sorta di vicecapo) a Palermo. Questa volta ce la fa, ma sembra quasi una gentile concessione, mentre qualcuno dei suoi soliti nemici non esita a insinuare la calunnia che il fallito attentato dell’Addaura (una borsa imbottita di 58 candelotti di tritolo ritrovata il 21 giugno 1989 nei pressi della sua abitazione) se lo fosse organizzato da sé… per farsi pubblicità. In Procura Falcone non lo fanno letteralmente lavorare. Il capo lo ignora, lo umilia con ore e ore di anticamera. Falcone capisce che se vuole continuare a fare antimafia deve «emigrare» dalla Sicilia. Trova una specie di asilo politico-giudiziario a Roma, ministero della Giustizia, dove crea quei caposaldi della lotta alla mafia (in particolare Procura nazionale e Dia) che ancora oggi funzionano molto bene.
Il seguito della «storia» è tragicamente noto: sono le stragi di Capaci e via d’Amelio, le vite di Falcone e Borsellino, insieme a quelle degli uomini e delle donne che erano con loro il 23 maggio e il 19 luglio 1992, spezzate dalla feroce vendetta mafiosa. Comincia a farsi strada in me l’idea di andare a lavorare a Palermo. E quando deciderò di farlo davvero avrà un forte peso (lo dico senza alcuna retorica) il ricordo di quel che i due amici magistrati avevano dovuto patire in vita. Un ricordo intrecciato con il rimpianto di non essere riuscito — pur avendo sempre votato a loro favore — a convincere la maggioranza del Csm delle loro buone ragioni. Che poi erano quelle della lotta alla mafia nell’interesse della democrazia.
*Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Torino
Il Corriere della Sera 21.05.12