L’attentato di ieri a Brindisi è talmente pazzesco che siamo qui tutti a sperare che a compierlo sia stato, appunto, un pazzo. Se così non fosse, saremmo infatti di fronte a uno sconvolgente cambio di passo della criminalità organizzata, o del terrorismo se di terrorismo si trattasse. Finora la mafia e le organizzazioni della lotta armata avevano infatti colpito bersagli precisi, cioè uomini considerati «nemici», oppure seminato la morte nelle banche o sui treni. Era mostruoso, ma mai si era arrivati a voler colpire una scuola per uccidere deliberatamente degli studenti che sono poco più che bambini. Questo sarebbe ancora più mostruoso.
Ecco perché siamo qui a sperare che l’attentatore sia una specie di Unabomber al quadrato. Altrimenti, se dietro a tanto orrore ci fosse un disegno anziché una mente malata, dovremmo concludere che l’Italia è condannata a non essere mai un Paese normale.
Infatti la prima riflessione che viene spontanea è questa: ogni volta che nel nostro Paese c’è un periodo di transizione, qualcuno cerca di gestirlo con il sangue. Accadde così dopo il Sessantotto, quando ci fu chi cercò di condizionare il cambiamento con le bombe e chi invece con un partito armato. Furono anni in cui mutò quasi tutto, nel mondo occidentale: dai rapporti sociali al costume, e le tensioni esplosero ovunque. Ma solo in Italia ebbero effetti tanto tragici e prolungati nel tempo. Negli Stati Uniti si parla ancora oggi della rivolta di Berkeley del 1964, a Parigi di un mese soltanto («il maggio francese»), in Germania il terrorismo si aprì e si chiuse in poche settimane con la cruenta vicenda della banda Baader Meinhof. In Italia invece si andò avanti almeno fino agli Anni Ottanta, e per giunta con una serie di misteri ancora oggi non chiariti.
La seconda riflessione: siamo sempre in ritardo a capire quello che ci succede attorno. Leggiamo sempre il presente con le categorie del passato. Due settimane fa, dopo il ferimento dell’amministratore delegato dell’Ansaldo a Genova, abbiamo pensato subito alle Brigate Rosse, alla lotta al capitalismo e così via. Tutta roba di trenta o quaranta anni fa, mentre l’Italia e il mondo sono profondamente cambiati e nuove rabbie stanno montando: contro la finanza, contro le ultime frontiere del progresso tecnologico, contro l’incubo dell’inquinamento e del disastro nucleare. Stanno montando e alimentano ahimè anche alcune frange estremiste e potenzialmente omicide. Il rischio di un nuovo terrorismo dunque c’è, e quelli che dicono che invece non c’è perché il mondo non è più diviso in due blocchi suscitano francamente un po’ di tenerezza.
Sempre per questa propensione a leggere l’oggi con le categorie di ieri o dell’altro ieri, adesso siamo qui a cercare un nesso tra la bomba di Brindisi e quelle del ’92 e ’93, altro periodo di transizione. Allora fu la mafia a colpire. Lo fece con una strategia per quei tempi nuova. Adesso cercare di indirizzare il cambiamento con le bombe non sarebbe più una novità. Ma nuovo sarebbe sicuramente l’obiettivo – una scuola, appunto – e quindi siamo in ogni caso di fronte a un fenomeno inedito, e non a una replica.
Terza cosa. Non riusciamo mai a essere un Paese normale anche perché in nessun altro angolo del mondo i profeti del complottismo e della dietrologia fanno tanti proseliti. È vero che in Italia, a partire da Piazza Fontana in poi, ne abbiamo viste di ogni colore. È vero che le trame sono state molte (le abbiamo appena ricordate) e spesso oscure. Ma sostenere – o insinuare, che è la stessa cosa – che la bomba di Brindisi l’ha messa o fatta mettere il governo Monti per distogliere l’attenzione degli italiani dalla crisi economica e dalle cartelle esattoriali, è anche questa l’espressione di una follia, e non del tutto innocente. Eppure tesi del genere ieri pomeriggio circolavano sulla rete con l’ammiccamento di qualche politico, o meglio antipolitico, in cerca di voti e di visibilità.
Insomma questa è l’Italia. Un Paese talmente anormale da costringerci a sperare davvero che ci sia in giro qualche pazzo che collega tre bombole del gas con un timer così, per il gusto di farlo, e senza secondi fini.
La Stampa 20.05.12