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"Giovani e futuro. Un esperimento sulla pelle dei ragazzi ", di Maurizio Ricci

Fra il 2008 e il 2010, mentre il paese si baloccava con l´articolo 18, il 30 per cento dei giovani precari dell´industria è stato licenziato e lasciato senza nessuna tutela. Già nel 2009, secondo la Banca d´Italia, 480mila famiglie avevanoun figlio disoccupato in casa. E intanto In Italia il welfare è in via di lenta estinzione. Un´inversione di marcia per le nuove generazioni: dal lavoro nero subito dopo la guerra al lavoro regolare dopo il boom, siamo tornati al lavoro nero dagli anni Novanta. Bamboccioni, sfigati, infingardi. Poche generazioni sono state apertamente insultate come quella dei nati fra gli anni Settanta e Novanta, fra la fine dell´autunno caldo e la fine della Prima Repubblica, neanche la craxiana “Milano da bere” e l´esplosione del debito pubblico fossero loro colpe infantili. E insultati non dal politicante qualunque, ma da compatrioti illustri, fra le rare eccellenze intellettuali e accademiche del paese: Padoa Schioppa, Monti, Fornero. Ma la realtà è che, a fare una pessima figura, sono state proprio quelle eccellenze, dimostrando quanto siano lontane dalla realtà quotidiana del paese. E incapaci di vedere quanto quella generazione di bamboccioni sia stata protagonista di un gigantesco e spietato esperimento sociale, camuffato da flessibilità.
In un libro recente, Generazioni a confronto, Andrea Schizzerotto e altri disegnano il percorso delle ultime generazioni di italiani. Un percorso a U: il lavoro nero subito dopo la guerra, il lavoro regolare dopo il boom, il lavoro nero a partire dagli anni Novanta. Non è difficile capire cosa sia successo. La flessibilità dovrebbe servire a portare mobilità ed elasticità al mercato del lavoro. In Italia è stata declinata in modo diverso. Imboccare la strada dell´euro, negli anni Novanta, significava abbandonare la strada delle svalutazioni della lira per recuperare competitività, comprimendo il costo del lavoro. La competitività doveva essere recuperata con la produttività, gli investimenti, l´innovazione. Non è stato così: la flessibilità all´italiana ha consentito alle imprese di recuperare competività, comprimendo, ancora una volta, i salari nominali, a questo giro con il precariato di massa.
Fra il 1995 e il 2007, i contratti a termine sono aumentati del 7 per cento l´anno. Nel 2008, nell´operoso Nord, le assunzioni a tempo indeterminato – quelle normali – erano pari al 23 per cento delle assunzioni totali. Nel 2010 erano scese al 15 per cento, praticamente una rarità. Il motivo si capisce guardando cosa succedeva ai precari, diventati carne da macello. Fra il 2008 e il 2010, mentre il paese si baloccava con l´articolo 18, il 30 per cento dei giovani precari dell´industria è stato licenziato.
Licenziato e lasciato senza tutele. Non è chiaro cosa dovrebbe fare, secondo i suoi censori, il bamboccione rimasto senza lavoro, senza sussidi e con scarsissime possibilità di trovare un altro posto. Si rifugia da mamma e papà e sono numeri imponenti. Già nel 2009, secondo la Banca d´Italia, 480 mila famiglie si ritrovavano in casa un figlio, disoccupato da poco. E hanno dovuto pensarci loro, perchè il welfare, in Europa, c´è ancora, ma in Italia è in via di sparizione.
Fra il 2008 e il 2009, in Italia, il Pil è crollato del 6 per cento, i redditi familiari sono caduti del 4 per cento. All´estero, il Pil è sceso, ma i redditi familiari sono aumentati. In Francia, ad esempio, il prodotto è sceso del 3 per cento, ma i redditi delle famiglie sono aumentati del 2 per cento. Idem in Germania, Gran Bretagna, Svezia, finanche Stati Uniti. Il miracolo è stato reso possibile dall´aumento dei trasferimenti sociali e, in alcuni casi, la riduzione delle tasse che hanno accompagnato la crisi. In Italia, non è rimasto che intaccare il risparmio familiare. Quello che, per definizione, i bamboccioni non hanno mai avuto.

La Repubblica 20.05.12

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“Professori obsoleti e nativi digitali”, di Corrado Zunino

Il ritardo di formazione inizia con le scuole medie e si amplifica nei cicli di studi successivi. Il gap diventa enorme e impone interventi. “Combattere l´evasione servirà anche a impedire che i figli dei poveri paghino gli studi accademici ai figli dei ricchi”, dice il vicerettore di Pavia. La scuola e l´università italiane approdano al Festival economia di Trento e, partendo da quattro punti di vista differenti, quattro relatori consapevoli cercheranno di comporre le caselle per mettere insieme il puzzle: il sistema scuola e il sistema universitario soffrono, come il resto del paese d´altronde. I quattro punti di vista spiegano perché e provano a indicare possibili vie di uscita. La mancanza di fondi è centrale nella sofferenza di sistema, ma non è tutto, come vedremo.
Ecco, il primo giugno, di pomeriggio il professor Andrea Ichino, senatore del Partito democratico, parlerà della “Facoltà di scelta”, ovvero come scegliere da neodiplomati la facoltà giusta. Come dare agli studenti la possibilità effettiva di scegliere per migliorare la loro preparazione, ma anche l´università che frequentano. «Far contribuire maggiormente al costo degli atenei coloro che ne traggono i maggiori benefici», dice Ichino, «reperendo nuove risorse senza gravare sui conti pubblici», è il lungo sottotitolo. «Non lasciare che i poveri paghino l´università ai figli dei ricchi», è l´assunto. A partire da questo punto di vista è interessante notare come alcune università – Pavia prima di tutte – si siano rivolte all´Agenzia delle entrate per scovare i furbetti dell´Isee, l´indice del reddito familiare che fra i lavoratori autonomi è spesso lontana dalla realtà. «Nelle dichiarazioni dei redditi che ci vengono presentate esistono ampie sacche di elusione evasione», ha fatto sapere il vice-rettore, Lorenzo Rampa. Sul fronte della “consapevolezza nella scelta”, il ministro dell´istruzione Francesco Profumo ha puntato sull´orientamento. E a Sassari le Giornate dell´orientamento sono diventate un happening informativo per cinquemila studenti provenienti da settanta scuole superiori della Sardegna: 34 stand aperti al pubblico, centinaia di docenti a offrire informazioni.
Dalla “Scelta”, al Festival di Trento, si approderà ai “Ritardi” (tre ore dopo, sempre il primo giugno). Con il sottosegretario all´Istruzione Elena Ugolini si affronterà il tema del ritardo dell´Italia nella formazione del proprio capitale umano, dal punto di vista della qualità (livelli di apprendimento, competenze richieste dal mondo produttivo) e dell´equità (differenze basate sull´origine sociale e culturale della famiglia). «Il ritardo inizia con le scuole medie e si amplifica alle superiori e all´università. Il costo economico e sociale è enorme e impone interventi urgenti sul fronte del reclutamento e della formazione degli insegnanti, dell´organizzazione delle scuole, della loro valutazione e della definizione delle competenze da insegnare». La valutazione, ecco. Sempre Profumo ha messo la barra a dritta sulla valutazione scolastica – l´Invalsi – e universitaria – Anvur -. Ci sono molti dubbi, un caravanserraglio di polemiche e troppe cose non dette su questi strumenti, ma il ministero crede nella valutazione delle scuole, degli atenei e nel grado di preparazione delle generazioni di studenti valutate.
Immancabile anche al Festival di Trento il tema dei bamboccioni, infelicemente rilanciato dal sottosegretario all´Economia, Michael Martone. Francesco Billari, docente di Demografia alla Bocconi, il primo giugno proverà a spiegare il record tutto italiano della lunga permanenza dei giovani in famiglia e in serata ci sarà dibattito con cinque esperti. Politiche e istituzioni, è l´assioma di partenza, danno poche opportunità ai giovani. Restando all´istruzione e al mondo del lavoro che le ruota intorno, in Italia un dottorato – in media – diventa professore d´ateneo (con cattedra) a 47 anni. Infine i nostri bamboccioni (tutti nativi digitali) vengono istruiti da maestri digitali zero, e questo è il quarto tema. Sarà illustrato, tra gli altri, dal sottosegretario Marco Rossi Doria.

La Repubblica 20.05.12

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“Le nuove vittime degli squilibri sociali”, di MASSIMO GIANNINI

«I giovani sono le vere vittime della crisi». Come la goccia cinese, queste parole battono e ribattono da più di un anno sulle nostre teste, e sulle nostre cattive coscienze. Lo hanno detto e continuano a dirlo tutti. Papi e capi di Stato (da papa Ratzinger a Giorgio Napolitano). Prime ministre e prime donne (da Angela Merkel a Christine Lagarde). Banchieri e professori (da Mario Draghi a Mario Monti). E poi sociologi e sindacalisti, editorialisti ed economisti. L´avaria del turbo-capitalismo globale ha fatto strage di esperienze e di speranze soprattutto nella fascia d´età compresa tra i 15 e i 25 anni. I giovani sono i nuovi soggetti deboli di una società sempre più disuguale, dove il decimo più ricco della popolazione globale detiene il 61 per cento del reddito mondiale. Nel primo decennio del Terzo Millennio, l´egemonia del pensiero neo-liberista ha generato la tirannia del rigore e la dittatura dello spread.
Il primato della rendita e la distruzione del lavoro come valore sociale e come fattore produttivo. Cosa abbiamo fatto per invertire questa rotta suicida, che ha sovvertito il patto novecentesco tra capitalismo e democrazia e ha scardinato il patto solidarista tra le generazioni?
Un beneamato nulla. L´Ocse ci ha appena informato che nell´area dei Paesi industrializzati i giovani senza lavoro sono diventati 11 milioni, con un tasso di disoccupazione nella fascia 15-25 anni pari al 17,1 per cento, che diventa 35,9 per cento in Italia e addirittura 51,1 per cento in Spagna e Grecia. È la legge di Murphy: sul piano inclinato dell´austerità irriducibile e indiscutibile, se qualcosa può andare peggio ci andrà. E ci sta andando, soprattutto in Italia. Lo stesso conflitto tra padri e figli è ormai una guerra senza vincitori. La riforma delle pensioni ha tolto ai primi, com´era in parte anche giusto, ma non ha dato ai secondi. E la riforma del mercato del lavoro è solo un passo per trasferire i figli sulla strada della flexsecurity scandinava, in cui si cerca di ri-ancorare l´accesso al lavoro intorno al contratto a tempo indeterminato, ma in cui mancano ancora le risorse per una vera rete di protezione per i troppi che ancora ne sono sprovvisti.
La nostra rimane una “politica economica dell´insicurezza”, che non premia il rischio e il merito. Si limita a una blanda manutenzione della precarietà e della flessibilità. Ma non disperiamo. Sulla scia degli “Occupy” e delle proteste, sull´onda del disagio dei popoli, il vento europeo comincia a cambiare. Il tema della crescita e dell´equità sociale entra prepotentemente in agenda, insieme al teorema del rigore. Si può finalmente osare l´inosabile. Un anno fa, chiunque contestava l´ortodossia monetarista custodita lungo l´asse asimmetrico franco-tedesco veniva bollato come pazzo, o come sovversivo. Oggi, quell´ortodossia la contestano in tanti. Non solo i greci che non vogliono un governo filo-Ue, non solo i francesi che votano Hollande, ma persino i tedeschi che in Nord-Reno Westfalia voltano le spalle alla Cancelliera di Ferro. Sembra niente, ma è una svolta gigantesca. Lo dice persino George Clooney, in uno spot televisivo: «Immagina. Puoi».

La Repubblica 20.05.12

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