Prove Invalsi: apparente regolarità, sotterranea ambiguità
Aldilà delle cifre della protesta, malumori e tensioni covano sotto la facciata dello svolgimento regolare, col rischio di spendere tantissimo in termini di costi per avere pochissimo in termini di benefici. Ma il nodo centrale è che bisogna fare chiarezza una volta per tutte sull’utilizzo dei risultati. In apparenza sembra la solita storia. A leggere i dati forniti dal Miur, le prove Invalsi si sono svolte regolarmente, con percentuali minime di astensionismo: solo lo 0,69% delle classi della scuola primaria, l’1,26% nella secondaria di I grado, e l’1,56% nella secondaria di II grado.
Tutt’altra musica sul fronte opposto: i Cobas, protagonisti dello sciopero, riferiscono di “decine di migliaia di docenti” e contestano i dati diffusi dal Ministero. Sono falsi -dicono- perché riguardano solo le classi campione, che sono meno di un decimo del totale. Lo zoccolo duro della protesta anti-Invalsi si conferma la secondaria di II grado, grazie all’appoggio dell’Unione degli Studenti e di altre associazioni studentesche, che hanno boicottato i test in diverse scuole, a volte con l’astensionismo palese, a volte in modo beffardo: lasciando in bianco, rispondendo a caso, cancellando i codici identificativi.
Aldilà delle cifre della protesta, malumori e tensioni covano sotto la facciata dello svolgimento regolare, col rischio di spendere tantissimo in termini di costi per avere pochissimo in termini di benefici.
Nelle scuole le prove si sono svolte più per dovere che per convinzione. Non sono mancati casi di minacce “disciplinari” da parte di dirigenti verso insegnanti riottosi o studenti astensionisti. Certamente però non basta il metodo impositivo affinché una operazione come quella delle rilevazioni nazionali standard possa avere successo ed essere utile. Lo ha ammesso lo stesso ministro Profumo, che ha annunciato, per il prossimo anno, “un’operazione di educazione e comunicazione”, per diffondere una “cultura di lettura del dato”, ma soprattutto per far crescere la “consapevolezza del valore della valutazione e dei suoi obiettivi” negli attori del sistema scuola.
Ma il nodo centrale è che bisogna fare chiarezza una volta per tutte sull’utilizzo dei risultati. A cosa servono le rilevazioni generalizzate degli apprendimenti? Ad avviare processi di “autonomia responsabile” e di miglioramento qualitativo dell’istruzione, o a misurare e valutare la performance dell’organizzazione scolastica e del personale che vi lavora in vista dell’assegnazione di premialità economiche?
Se guardiamo al progetto sperimentale VALeS, avviato quest’anno in 300 scuole, si direbbe che la strada è la prima: la valutazione ha come obiettivo il miglioramento dell’istituzione scolastica, con finanziamenti rapportati agli obiettivi da raggiungere e nessuna graduatoria.
Tuttavia l’impalcatura normativa vigente, costruita dal precedente governo, è rivolta in tutt’altra direzione. Brunetta ha voluto il ciclo della performance (D.lvo 150/2009) e il ministero guidato dalla Gelmini ne ha recepito i principi nel Dpcm del 26/1/2011 e nella legge del 26/2/2011. Nelle famose risposte inviate all’Unione europea dal governo Berlusconi nell’autunno 2011, si ribadisce che la valutazione delle scuole porta alla definizione di una “graduatoria” utilizzata per dare incentivi e finanziamenti. Nel caso di risultati negativi, si parla di “ristrutturazione” e “ridimensionamento della singola scuola”.
La Direttiva annuale all’Invalsi del 3/10/2011, uno degli ultimi atti della Gelmini, contiene le stesse ambiguità: da un lato indica fra gli obiettivi della valutazione quello di promuovere un generale e diffuso miglioramento della qualità degli apprendimenti nel nostro Paese, dall’altro però non manca di rimarcare che il progetto affidato all’Invalsi serve “anche ai fini della definizione e generalizzazione dei processi di misurazione delle performance delle scuole”.
Finché non si farà chiarezza sull’utilizzo dei risultati, rimane alto il rischio dei comportamenti opportunistici, che possono inficiare alla base l’attendibilità dei test. Infatti, nel dubbio che i dati raccolti possano servire a misurare la performance organizzativa e individuale, non sono rari i piccoli accorgimenti od espedienti di salvaguardia, come giocare sulle assenze degli studenti più deboli, o consentire qualche aiutino. Nei sistemi scolastici dove le rilevazioni nazionali degli apprendimenti sono legate ai finanziamenti, questi comportamenti sono ben noti, frequentemente praticati e molto sofisticati.
All’Invalsi lo sanno bene, e hanno messo a punto dei metodi statistici per “depurare” i dati dai comportamenti anomali. Ma al Ministero dovrebbero ben sapere che, se non si esplicitano chiaramente le finalità, non ci sarà campagna di comunicazione in grado di sviluppare la cultura della valutazione né di favorire il “concorso istituzionale” di tutti soggetti coinvolti.
La Tecnica della Scuola 19.05.12
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