Le elezioni amministrative capitano in una fase di accentuata destrutturazione del sistema politico. Hanno quindi un significato fortemente evocativo. Tra le rovine del bipolarismo, esse alludono a nuovi scenari. Per ora gli indizi lasciati sono solo embrionali, ma si rinvengono già delle tracce che paiono destinate a durare nel tempo. Qualcosa di analogo si verificò anche nelle consultazioni locali del 1993. Un sistema che era in piedi da mezzo secolo si ritrovò con soggetti estinti. E i partiti superstiti vagavano con affanno alla ricerca di altri equilibri. La cattiva ermeneutica del voto impedì allora alla sinistra di cogliere gli spostamenti molecolari in atto. Per questo mancò una lettura realistica del rapporto tra le forze sociali in campo, che andavano alla rapida ricerca di una rappresentanza perduta.
Ben altra è la consapevolezza storico-politica di oggi, e questo rassicura circa la non riesumazione degli errori strategici di allora. Le difficoltà che affiorano nondimeno sono enormi. Il Pd è senza dubbio il vincitore del turno elettorale di maggio. Operando come una flessibile cerniera, pare in grado di stringere coalizioni variabili che gli consentono di essere ovunque in gioco. Ma, nella conferma della sua capacità competitiva, si nascondono delle insidie. Il nodo principale è che il Pd è rimasto un partito senza sistema. È cioè solo e non riesce a fissare il volto del nemico che c’è (la destra è anzitutto una fitta trama di interessi). Questo operare in un sistema vuoto dà nell’immediato un vantaggio che consente al Pd di mietere il successo nelle città, ma apre anche delle incognite. Un partito senza sistema cammina infatti in un vicolo cieco, non può confidare su sponde, non ha interlocutori affidabili. Un paesaggio spettrale. La sensazione di essere da solo contro un mondo ostile e inafferrabile non è affatto ingannevole. Anzi, coglie l’essenza delle cose. Evidenti sono da mesi gli investimenti giganteschi (mediatici e di forze economiche) effettuati per imporre un’uscita regressiva alla crisi con l’invenzione di alternative improbabili ai grandi partiti. Il rigonfiamento mediatico di un senso comune irriducibilmente antipolitico non è operazione candida e senza conseguenze. Al cospetto dell’immane coro omologante della delegittimazione della politica, il boom di un comico che allestisce in scena una nuova narrazione fiabesca appare persino modesto. Esistono potenze del materiale e strateghi dell’immaginario che non gradiscono la ricostruzione di una moderna democrazia dei partiti che abbia delle connessioni politico-culturali con le dinamiche europee. In tanti inseguono nuovi fantasmi e disarmanti semplificazioni pur di ostacolare una ricollocazione di tipo europeo alla politica italiana. Il tecno-populismo di un comico che mette il proprio nome nel simbolo, l’annuncio di un diluvio di nuove liste (dei ricchi, dei beni comuni, dei bene-pensanti amici della legalità) svelano una volontà di annichilimento della politica organizzata che ha del sorprendente. La polverizzazione della rappresentanza, cioè la banalizzazione della funzione storica del grande partito come luogo della sintesi e dell’aggregazione degli interessi, è il principale ostacolo da abbattere per ricostruire un destino all’Italia oltre la decadenza.
Nella congiuntura storica di una crisi sociale che divora le appartenenze, il partito per svolgere una moderna funzione nazionale deve ritornare alle origini per essere riconosciuto da una parte della società, quella che più soffre il disagio, come un argine sicuro cui fare sempre affidamento. Il Pd non paga alle amministrative le difficoltà fisiologiche che derivano dalla sua (costosa) assunzione di responsabilità nel sostenere il governo di emergenza, ma la sua potenza di forza tendenzialmente egemone non può prescindere dalla cura di delicati legami sociali. Il lavoro sulle riforme elettorali è certo indispensabile, ma il suo cammino diventa ogni giorno più incerto e per taluni il sabotaggio è un vantaggio.
Ci sono momenti che impongono ai partiti di giocare a carte scoperte dichiarando prima d’ogni cosa quale parte della società si intende rappresentare. La destra non a caso è nata a ridosso delle elezioni amministrative del ’93 proprio dando rappresentanza a interessi forti (non solo quelli del Cavaliere) che non intendevano partecipare ai grandi sacrifici richiesti per entrare in Europa. Quegli interessi oggi non sono scomparsi e ritroveranno presto un interprete che di sicuro ringrazierà l’antipolitica per il prezioso lavoro sporco compiuto. E la sinistra? Ha avuto sempre cattivi risvegli quando ha letto male il voto amministrativo e ha trascurato la rappresentanza del proprio mondo devastato dal liberismo.
l’Unità 19.05.12