L’Italia non fa nulla per trattenere i suoi giovani scienziati ma scoraggia anche le eccellenze che dall’estero scelgono il nostro Paese. La burocrazia èla principale colpevole. Dallo scorso autunno Alessio Figalli, 27 anni, romano è “full professor” presso l’Università di Austin in Texas. Si è formato alla Normale di Pisa e in pochissimi mesi sulla base del solo merito ha ottenuto posizioni al Consiglio nazionale delle ricerche francese, all’università di Parigi e all’università di Princeton prima di ottenere una cattedra da professore ordinario ad Austin. Molti, anche tra i docenti che lo hanno conosciuto a Pisa, gli riconoscono qualità superiori. Ma con Alessio Figalli siamo stati ancora vittima di quel fenomeno che molti chiamano «cervelli in fuga»? La risposta è no. Non perché, nel caso specifico di Figalli, l’Italia non abbia perso un altro genio. Ma perché il fenomeno generale non esiste. Non c’è una fuga dei cervelli dall’Italia. Semmai – come riconoscono una serie di studi dell’Ocse, della Fondazione Rodolfo De Benedetti e dell’Aspen Institute – c’è un mancato sbarco di cervelli in Italia. Perché non è possibile parlare di «fuga dei cervelli» dall’Italia? Beh, perché tutti questi studi dimostrano che i lavoratori italiani con alta qualifica che lavorano fuori dai confini del nostro Paese sono poco meno di 400.000: il 7% della popolazione italiana in possesso di laurea. In Gran Bretagna se ne va a lavorare all’estero il 17% dei laureati; in Irlanda addirittura il 34%; in media, nel Nord Europa più del 14%. Per l’Italia, dunque, non si può parlare di «fuga dei cervelli». I nostri giovani qualificati restano a casa, magari senza lavoro. Si può parlare, semmai, di una fuga selettiva dei ricercatori. Nell’ambito della ricerca scientifica, infatti, la situazione è un po’ diversa. La percentuale di lavoratori italiani qualificati che va all’estero per fare ricerca scientifica è più alta rispetto ad altri Paesi. Si calcola che negli Usa, per esempio, lavorino 9.000 ricercatori italiani, una delle comunità di scienziati europei più numerose in America, pari al 20% dei lavoratori qualificati italiani che hanno trovato impiego negli States. In media i ricercatori sono solo il 9% degli immigrati con alta qualifica che da tutto il mondo si recano negli Usa. Si calcola, ancora, che i ricercatori italiani che lavorano in altri Paesi dell’Europa siano in numero poco superiore. Cosicché, in totale, abbiamo poco più di 20.000 ricercatori italiani che lavorano all’estero: circa un quarto dei ricercatori che lavorano in Italia. Un patrimonio grande, ma non drammatico. Se non fosse che la medaglia della ricerca e dell’alta educazione italiana ha una faccia molto più grave che di solito non desta l’attenzione dell’opinione pubblica: l’Italia ha una scarsa o nulla capacità di attrarre i cervelli altrui. Pochi vengano dall’estero nel nostro Paese per fare ricerca o anche solo per studiare. Gli stranieri con educazione terziaria presenti in Italia sono appena 142.000 secondo lo studio della Fondazione De Benedetti e 240.000 secondo l’Aspen Institute: cifre comprese tra il 2 e il 3% della popolazione laureata del nostro Paese. In Francia gli stranieri sono il 10,8% del totale dei laureati; l’11,5% in Germania, il 17,3% in Gran Bretagna. Non sono, dunque, le uscite, ma sono le mancate entrate il grande problema del «flusso dei cervelli» in Italia. Con 400.000 in uscita (pochi) e solo 140.000 o al più 240.000 in entrata (pochissimi), vantiamo – unici in Europa – una perdita secca di «cervelli» compresa tra 260.000 e 160.000 unità.Unbilancio negativo che non possiamo permetterci. La situazione è ancora più clamorosa nel settore specifico della ricerca scientifica. Gli stranieri impegnati in programmi avanzati di ricerca in Italia, come per esempio un dottorato, nel 2005 erano solo il 4,3% del totale. Contro il 14,5% della media europea, il 34,4% della Francia e, addirittura, il 41,4% della Gran Bretagna.
IL RESPINGIMENTO Di più. I pochi giovani che sono riusciti a entrare (il 40% dall’Asia, il 10% dall’Africa, il 17% dalle Americhe, il 21% dall’Ue, il restante 12% dall’Europa dell’est) sono sottoposti a sollecitazioni fortissime che vanno in direzioni opposte. Come dimostra un’indagine campione della fondazione DeBenedetti, tra gli intervistati l’85% ha una borsa di studio nel nostro Paese, dove viene attratto da un buon programma di ricerca e dalla buona qualità dell’insegnamento (63%). Poi, però, interviene la burocrazia. E arrivano le forze repulsive. Il 77% dichiara di aver aspettato più di un mese per ottenere il primo appuntamento e avviare le pratiche per regolarizzare la sua posizione. Molti (il 30%) hanno ottenuto i documenti necessari dopo un anno o più. In definitiva, gli stranieri altamente qualificati in Italia trovano una buona università e un cattivo ambiente. Così, alla fine, le forze repulsive prevalgono su quelle attrattive: l’88% dei giovani stranieri che hanno già deciso cosa fare dopo il dottorato dichiarano di voler lasciare l’Italia. Li formiamo, anche bene, ma poi facciamo di tutto perché questi «cervelli» se ne vadano via. Respinti oltre frontiera. Un fenomeno che ha un costo altissimo. Tutti i Paesi sia a economia avanzata sia a economia emergente cercano di attirare in ogni modo “cervelli” dall’estero. È in atto una guerra globale per i cervelli. Non solo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma ben 36 Paesi in tutto il mondo, le principali economie del pianeta, hanno messo in atto politiche attive per attrarre persone qualificate dall’estero. Di contro, solo cinque paesi (Arabia Saudita, Bhutan, Botswana, Egitto e Giordania) hanno politiche attive per disincentivare l’immigrazione di persone altamente qualificate. Con queste sue prassi e con le sue leggi sulla sicurezza, l’Italia rischia seriamente di entrare nel ristrettissimo novero dei Paesi autolesionisti che non solo non partecipano alla guerra «per», ma fanno la guerra «ai» cervelli.
l’Unità 19.05.12