Il passato a volte ritorna, come sa bene Pier Luigi Celli. E inaspettatamente. Magari attraverso una frase dolorosa come quella scritta in una lettera indirizzata a suo figlio tre anni fa: «Dammi retta, questo Paese non ti merita». Ma c’è da giurarci. Celli l’avrebbe scritta ugualmente, anche se avesse saputo che quelle parole gli avrebbero un giorno scatenato contro l’ira di quarantasette senatori, determinati nel chiederne la testa di presidente dell’Enit proprio alla vigilia del suo debutto nel consiglio di amministrazione.
Il bello è che la petizione, promossa da Maurizio Gasparri e Carlo Giovanardi, porta la firma anche di quattro parlamentari che quando si è trattato di dare in commissione il via libera alla sua nomina, hanno votato a favore: Alfredo Mantica, Aldo Scarabosio, Ada Spadoni Urbani e Tomaso Zanoletti. Avendo ora evidentemente cambiato idea sono andati a ingrossare le fila del gruppo dei rivoltosi, assieme a Sandro Bondi, Giuseppe Ciarrapico, Diana De Feo (la moglie di Emilio Fede), Adriana Poli Bortone, Guido Possa, Salvatore Sciascia, Domenico Gramazio… Non basta. Gira persino voce (la fonte è superautorevole) che lo stesso Gasparri avesse dato il proprio via libera alla designazione di Celli direttamente al ministro del Turismo Piero Gnudi. Ma forse perché ancora non era stato pubblicato su Libero l’articolo di Maria Giovanna Maglie dal titolo: «Il nostro turismo è nelle mani dell’uomo che odia l’Italia». L’ex corrispondente del Tg2 ricordava come Celli fosse l’autore di quella lettera, stampata su Repubblica, con la quale esortava il figlio a cercare fortuna fuori dall’Italia. «Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché», scriveva. Una provocazione, che scatenò un putiferio. All’epoca Celli non aveva incarichi pubblici: era direttore generale (lo è pure adesso) della Luiss. Ma questo non lo risparmiò da velenose frecciate, tanto a destra quanto a sinistra.
Volendo contestualizzare fino in fondo la provenienza del siluro, è d’obbligo rammentare i ruvidi trascorsi fra Celli e Maria Giovanna Maglie. L’attuale presidente dell’Enit era direttore del personale della Rai all’epoca dei «professori», quando la giornalista del Tg2 lasciò la tivù pubblica dopo una brutta vicenda di spese ritenute eccessive dall’azienda. Di fatto, rappresentava dunque la sua controparte, come non mancò di ricordare egli stesso in un libro scritto nel 2000 per la Mondadori. Si intitolava «Passioni fuori corso».
Fatto sta che quando Gasparri legge l’articolo di Maria Giovanna Maglie salta su, apostrofando Celli come uno «fra gli italici Tarzan delle poltrone…». È il 4 aprile. Il 17 Giovanardi scrive a tutti i senatori chiedendo di sostenere la richiesta di defenestrare il presidente dell’Enit, reo di aver suggerito al figlio, tre anni prima, di prendere «la strada dell’estero» scegliendo «di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati». Appello che raccoglie sorprendentemente anche le firme di tre esponenti della Lega: ai quali, visto l’articolo uno dello statuto del loro partito che si pone l’obiettivo dell’indipendenza della Padania, la permanenza o meno in Italia del figlio di Celli dovrebbe suscitare indifferenza.
Sempre che il problema sia davvero la fede nella nazione del presidente dell’Enit, e non piuttosto il rischio che la figura ingombrante del direttore della Luiss, non molto amato nel centrodestra, si possa materializzare nella corsa per qualche altro incarico importante. Per esempio la presidenza della Rai, di cui è già stato capo del personale e direttore generale al tempo del centrosinistra. Ma forse è soltanto dietrologia, come quella di chi inquadra l’episodio in una prospettiva più aziendale, immaginando il terremoto che potrebbe comportare l’arrivo di Celli, un giorno autodefinitosi «tagliatore di teste riluttante». E l’Enit, indubbiamente, andrebbe rivoltato come un calzino. Non sono pochi quelli che lo considerano un inutile carrozzone. Prova ne sia la circostanza che la prima versione del decreto salva Italia messa a punto dagli esperti di Mario Monti ne prevedeva addirittura la soppressione. I finanziamenti sono al lumicino. I soldi dello Stato, ridotti a una trentina di milioni l’anno, bastano appena per mantenere in vita una struttura in attesa di una forte scossa. Cominciando dalla nomina del nuovo direttore generale…
Il Corriere della Sera 16.05.12