Falsità, malafede, opportunismo. C´è il peggio del peggio, nella psicopatologia italiana delle riforme quotidiane. La classe politica le evoca, le auspica, le moltiplica. Servono tutte: quella istituzionale, quella costituzionale, quella elettorale. Ma non se ne fa nessuna. Giorgio Napolitano, per l´ennesima volta, è costretto a lanciare il suo appello: fatele, sono ineludibili. I partiti plaudono, condividono. Ma, ancora una volta, eludono. Eppure, con un po´ di buon senso e buon gusto, non sarebbe difficile fare l´unica cosa che serve al Paese: «macellare» finalmente il Porcellum, e varare una legge elettorale maggioritaria a doppio turno.
Per quello che vale (ma qualcosa deve pure valere), il voto amministrativo del 6 maggio ha prodotto una mappa geo-politica più disorganica e frammentata che mai. Se nel 2013 si votasse con il sistema attuale e il risultato delle elezioni nazionali fosse lo stesso, l´Italia rischierebbe un governo probabile, ma una governabilità impossibile. L´ultimo frutto avvelenato del berlusconismo, che continua a far danni anche dopo la sua eutanasia. Solo in questo Paese è stato possibile tollerare che alla vigilia delle elezioni del 2006 un Parlamento già quasi sciolto ma pur sempre militarizzato dal Cavaliere cambiasse in corsa le regole del voto, con l´unico obiettivo di evitare una sconfitta sicura e sonora della destra. E solo in questo Paese è stato possibile accettare che un leghista ministro della Repubblica di nome Calderoli dicesse in tv, in prima serata, «quella legge l´ho scritta io, è una porcata».
Lo è a tutti gli effetti. Un mostro giuridico, che produce caos e svilisce la democrazia rappresentativa. Mescola proporzionale e super-premio di maggioranza, presidente del Consiglio praticamente eletto dai cittadini e parlamentari «nominati» dalle segreterie di partito. Il Porcellum si doveva fermare. Forse avrebbe potuto farlo l´allora capo dello Stato Ciampi, negando la firma a una legge «irrazionale», e dunque incostituzionale. Forse avrebbe potuto farlo anche la Consulta, dando via libera a un referendum popolare che aveva il suggello di oltre 1 milione e 200 mila firme di altrettanti italiani ansiosi di abrogare quella legge «ad coalitionem», e dunque immorale.
Le cose, purtroppo, sono andate diversamente. Sono passati quattro mesi da quel 12 gennaio, quando la Corte costituzionale bocciò i due quesiti. Da allora tutti i partiti hanno promesso solennemente che, senza più la «pistola» referendaria alla tempia, avrebbero varato una riforma elettorale finalmente seria, coerente e condivisa. Parole al vento. Come quelle sulla riforma del finanziamento pubblico e sul dimezzamento del numero dei parlamentari. Con un´aggravante in più: mentre la riduzione delle Camere esige una riscrittura costituzionale, con la procedura «rafforzata» e molto più articolata dell´articolo 138, la revisione del sistema elettorale si può fare con legge ordinaria, che volendo può essere molto più semplice e rapida.
Purtroppo non è quello che le «nomenklature» hanno in testa. Di riforma elettorale, forse, si ridiscuterà dopo i ballottaggi. Nel frattempo, circolano bozze se possibile anche peggiori della «porcata» calderoliana. Altri «saggi», dopo i molti che in questi anni si sono rovinosamente cimentati, sfornano ipotesi. Le più disparate, e anche disperate. Ritorno al proporzionale, ma con una quota di collegi uninominali. Modesto premio di maggioranza per chi vince, ma con bassa soglia di sbarramento per chi perde. Indicazione del premier sulla scheda, ma nessun vincolo di coalizione prima del voto. Ora si sente ragionare di un ritorno al maggioritario, naturalmente ricucinato in salsa italiana: cioè con il mantenimento di una quota proporzionale, e con l´introduzione di micro-collegi sul territorio.
Pasticci ingestibili, in cui si saltabecca dal sistema tedesco allo spagnolo, recuperando un po´ di francese ma conservando un briciolo di israeliano (unico Paese al mondo in cui si è sperimentata l´elezione diretta del premier) e un pizzico di paraguayano (unico Paese al mondo in cui si sono attribuiti due terzi dei seggi al partito con più voti e il rimanente terzo si è distribuito proporzionalmente tra le altre liste). Pasticci ingiustificabili, in cui l´unica esigenza manifesta, anche se ovviamente non confessata, è quella di cucire il nuovo sistema sul profilo dei partiti attuali, che cercano di sopravvivere a se stessi, e sulle poltrone degli eletti di oggi, che cercano riconferme per la prossima legislatura.
In questo scempio democratico, in cui tutto conta fuorché il diritto dei cittadini di scegliere alla luce del sole gli eletti, le coalizioni e i governi, basterebbe alzare lo sguardo, e vedere quanto è appena accaduto in Francia con la vittoria di Hollande. Un primo turno in cui ognuno fa la sua corsa, comprese le ali estreme della destra lepenista. Un secondo turno dove ci si coalizza, e si sceglie uno dei due schieramenti. Va così: uno vince, l´altro perde. Tutto si semplifica, tutto funziona. Si chiama maggioritario a doppio turno, i francesi ci eleggono sia l´inquilino dell´Eliseo sia il Parlamento. Ha garantito e garantisce governabilità e alternanza alla Quinta Repubblica, fin dal 1958.
Cosa impedisce a questo sciagurato Paese di mutuare banalmente quel sistema, magari aggiungendovi la sfiducia costruttiva e il potere del premier di revocare i ministri? Perché il Pd, che pure nel luglio 2011 l´ha inserito nel suo programma dopo il via libera unanime dei suoi gruppi parlamentari, non cavalca con forza il maggioritario a doppio turno? Perché la sinistra non la smette di avventurarsi su un´impervia «via tedesca», nella malsana convinzione che questo serva a incastrare il centro in uno schema non proprio innovativo, mirato al ripristino del vecchio «trattino» di cossighiana memoria?
È il tempo della generosità e della responsabilità. Merce rara, in un establishment incapace di capire che la tigre dell´anti-politica si doma solo con la buona politica. Ma se da qualche parte esistono ancora, i riformisti hanno a portata di mano la più facile e utile delle riforme. La rilancino, per il bene della democrazia. La sostengano, in nome del bipolarismo. Gli italiani gliene saranno grati.
La Repubblica 15.05.12