La domanda può essere considerata provocatoria, ma qualche volta bisogna avere il coraggio di scavare senza pudore nell’inquietudine, perché nel suo profondo si possono trovare anche tracce di verità. Se la democrazia è soprattutto legata alla parola, al dialogo libero e sincero tra i membri di una comunità, non corriamo il pericolo di smarrirla, questa nostra democrazia, nella triste Italia d’oggi? Se il discorso pubblico diventa così faticoso, angosciante e, qualche volta, impossibile, si può ancora pensare, attraverso il confronto della ragione, di individuare compromessi condivisi ai problemi nuovi e difficili che le società contemporanee ci pongono?
È questo il dubbio, magari indecente ma ineludibile, che sorge quando si leggono le parole dei cartelli che si agitano nelle manifestazioni di protesta, quando si ascoltano quelle dei politici, vanamente in cerca di un senso, anche quando manifestamente non l’hanno; quando si sentono quelle di rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori, dai toni sempre drammatici e ultimativi, che invece appaiono vane e fastidiosamente ripetitive; quando quelle parole appaiono, lugubri e assurde, nei volantini dei terroristi.
Persino quando si avverte la pressione, esigente e diffidente, sulle bocche dei ministri, perché siano costretti a pronunciare la parola sbagliata, magari frettolosamente inopportuna, perché ci si possa avvolgere nelle spire di una polemica che non produrrà mai nulla di utile, di serio, di concreto.
Quella «lingua di legno» che si rimproverava ai politici e ai burocrati del secolo scorso, elusiva e ipocrita, sembra essersi trasformata, nell’Italia d’oggi, in una «lingua di fuoco», che apparentemente incendia le passioni e che, invece, è solo una fiammella fatua, come quella, innocua, che invano tenta di riscaldare le anime dei cimiteri. In un clima di profondo e motivato disagio sociale, sembra perduta la possibilità di esprimere un’opinione, magari del tutto opinabile, senza che si alzi subito, non la critica sul merito, ma la condanna per aver osato pronunciarla e, persino, pensarla.
Eppure, terminata finalmente la stagione di quelle ideologie che avevano sempre una certezza, per tutto e per tutti, ora ci troviamo davanti a un mondo, forse divenuto troppo grande e troppo complesso, dove i dubbi, invece, si accumulano, più di quanto si sciolgano. Dal ruolo delle religioni nella vita politica e sociale al problema della distribuzione delle risorse, tra popoli ex ricchi ed ex poveri; dalla questione delle fonti energetiche, in un futuro che non garantisce uno sviluppo illimitato a quella di una vita dell’uomo che si allunga imprevedibilmente, insieme conforto individuale e allarme sociale. Le risposte a questi interrogativi, proprio perché nessuno ha più la bussola della verità, dovrebbero essere tutte ammesse, tutte verificate dal riscontro dei fatti e dei numeri, tutte vagliate da un esame sereno della ragione. Non ci dovrebbero essere argomenti tabù, interlocutori impediti a esprimere un giudizio. Peggio, uomini e donne ancora oggi, ancora in Italia, che rischiano la vita per un’opinione, per un’appartenenza, per una fede. Persino per l’espressione di una identità, nazionale, religiosa o sessuale.
Gli esempi sono troppi e fa male pure ricordarne qualcuno. Il ricorso all’atomo non è più un’alternativa energetica discutibile, ma un’ipotesi che condanna alla pistola chi l’avanza. L’Alta velocità non dimostra un’utilità opinabile, ma in Valsusa è diventato un fantasma apocalittico, che non è possibile evocare neanche nelle scuole, là dove si insegna, o si dovrebbe insegnare, la civiltà del dialogo democratico. L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori forse è diventato marginale tra le cause della mancata crescita occupazionale in Italia, ma continua a suscitare proclami inutilmente retorici e drammatici.
La crisi delle rappresentanze sociali, evidente nel nostro Paese, aggrava l’impressione di un teatro dell’assurdo, dove i fronti polemici, immotivatamente aggressivi, non trovano più mediatori credibili, autorevoli, capaci di imporre soluzioni ragionevoli, compromessi sostenibili in un periodo sufficientemente lungo. Così il dialogo, quello vero, finalizzato al convincimento dell’interlocutore, finisce o per essere rifiutato o viene sollecitato solo come pretesto per dimostrare la colpa dell’avversario, ormai sinonimo di nemico.
La «parola negata» in una democrazia produce, tra l’altro, una conseguenza grave, perché giustifica la dittatura della maggioranza o, peggio, la dittatura dell’autorità. Se il pluralismo delle idee non è più ammesso alla competizione del consenso nell’opinione pubblica, è evidente che la forza del potere vincerà sempre. O attraverso l’insidia del «luogo comune», la più pericolosa trappola della mente, o attraverso la coercizione di una verità che cala dall’alto, da una cattedra, da un pulpito, da un consiglio d’amministrazione. Perché la libertà della lingua, anche quella più scomoda, è l’arma più forte di chi è meno forte. Paradosso dei nostri tempi è il fatto che sono i più deboli, a volte, a rifiutarla e a disconoscerne la potenza.
Se il discorso pubblico diventa in Italia così arduo, così improduttivo, sarà sempre più difficile trovare soluzioni concrete, rapide, realizzabili ai nostri problemi, perché la confusione delle lingue, la censura delle idee e la delegittimazione delle persone non ci consentirà di distinguere la realtà dalla sua brutta rappresentazione. Diceva un grande intellettuale europeo, il filosofo e musicologo Vladimir Jankélévitch: «Le cose rispettabili sono relative e contraddittorie, ma non lo è il fatto di rispettarle».
La Stampa 13.05.12