Ci sono troppi politologi al capezzale della politica malata. Che parlano della crisi della rappresentanza, del mancato rinnovamento, del collasso del bipolarismo di coalizione, del fallimento dell’antipolitica berlusconiana, come se fossero questioni separate dalla depressione economica e dalle drammatiche conseguenze sociali. Invece la crisi della politica nasce innanzitutto nella società. O meglio, nell’incapacità di rispondere al disagio crescente delle famiglie, dei ceti medi, delle imprese, con un progetto in grado di rilanciare la crescita e redistribuire opportunità e risorse con criteri di equità. La politica appare impotente, nel migliore dei casi obbligata dal vincolo esterno. È per questo che viene contestata. È per questo che la corruzione di alcuni è considerata la colpa di molti. È per questo che ogni privilegio legato allo status di rappresentante suona come uno schiaffo a chi fatica ad arrivare alla fine del mese.
La politica deve darsi subito regole di trasparenza, di sobrietà, di rigore. Non è solo una richiesta di popolo. È la misura minima di moralità per poter continuare a guardare in faccia la democrazia: attenzione, la Grecia non è lontana e non è neppure il solo Paese in cui gruppi xenofobi, violenti, neo-nazisti acquistano allarmanti quote di consenso elettorale.
Ma sarebbe sbagliato pensare che questa medicina sia sufficiente. Così come è sbagliato rincorrere Beppe Grillo con argomenti che restano imprigionati nella sua demagogia. Il riscatto della politica democratica – quella che si fonda sulla partecipazione attiva dei cittadini e su partiti scalabili (non su partiti carismatici o personali, dove i capi si possono solo acclamare) – passa da un progetto per il Paese, da una volontà percepibile di cambiamento, da una scelta tra alternative legittime. Non basterà la pur necessaria riforma del sistema politico per evitare che la frammentazione produca altre macerie. La vera sfida è fuori dal Palazzo, dove le persone hanno timore per i loro figli, dove si sentono sole davanti a un mercato sempre più avaro e impietoso, dove in tanti tirano la cinghia e non sanno se basterà.
I numeri con i quali la politica deve confrontarsi, ben più dei sondaggi, sono il calo dell’occupazione, soprattutto di quella femminile e giovanile, che raggiunge in Italia livelli record. I numeri sono il 25% delle famiglie a rischio di indigenza. Sono quelli denunciati ieri dai sindacati sull’ulteriore impennata della cassa integrazione. Sono quelli dei pasti assicurati dalla Caritas. Sono quelli degli imprenditori che non ce la fanno, anche perché da noi il lavoro è tassato troppo rispetto alla rendita. Un progetto politico è prima di tutto una risposta nazionale alla questione sociale. Il rinnovamento della rappresentanza ne è il corollario, non il surrogato.
Per il centrosinistra italiano, e per il suo partito più rappresentativo, il Pd, è una sfida decisiva. Bisogna mettere in gioco tutto. Non c’è tatticismo che possa consentire rinvii. Le amministrative hanno mostrato l’immagine di un terremoto, con il crollo della destra, con l’affanno dei centristi, con un area progressista maggioritaria ma divisa sulle strategie, con una protesta crescente e sempre più radicale. Ma la vittoria di Hollande in Francia offre un’opportunità che fin qui era mancata. Per affrontare il disagio sociale ci vuole la crescita, dunque è necessario mutare la rotta delle politiche europee. E per fare questo il cambiamento non può che essere europeo. Occorre rompere la gabbia dell’austerità, che deprime l’economia e che, proponendosi di curare il debito pubblico, in realtà lo incrementa. Occorre lanciare una nuova stagione di investimenti, selettivi ovviamente, destinati a infrastrutture, reti, ricerca, conoscenza. Non è vero che la crisi si cura solo tagliando la spesa pubblica: la crisi si cura riducendo gli sprechi della spesa corrente ma destinando risorse per investimenti sul futuro.
La Francia può cambiare gli equilibri dell’Unione. Si può anzi dire che qualcosa è già cambiato, tanto che è entrato in agenda un nuovo Patto per la crescita da affiancare al Fiscal compact nel prossimo consiglio europeo di giugno. Per i democratici italiani si tratta di legare il proprio progetto in modo sempre più stretto a quello dei progressisti europei. Il manifesto di Parigi, sottoscritto da Ps francese, Spd tedesca e Pd italiano, è stato un primo passo importante. Ora su queste basi è necessario lanciare una proposta nazionale per il dopo Monti.
Alla crisi della destra e al disagio diffuso nell’elettorato non si deve rispondere aggravando le difficoltà del governo di transizione. Bisogna semmai, dove possibile, aiutarlo a procedere verso le riforme elettorali e istituzionali, verso una politica di intesa con la Francia di Hollande, verso maggiori investimenti sociali (come è accaduto nell’ultimo consiglio dei ministri, con il piano dei 2,3 miliardi per il Sud, per le fasce più deboli e per le imprese).
Alla partita del voto, però, occorre prepararsi con una impostazione chiara: gli elettori dovranno scegliere tra due diversi percorsi in Europa. La via progressista o quella dei conservatori. Se non saremo capaci di offrire quell’alternativa, sarà l’Italia intera, non solo un partito, a rischiare il default. E il terremoto potrebbe investire lo stesso impianto democratico. Le leadership politiche si giocheranno nella capacità di legare progetto nazionale e alleanza europea. Speriamo che quanti giocano alla Grande coalizione permanente si rendano conto che stanno giocando con il fuoco: senza alternative si corre verso Atene.
l’Unità 13.05.12