La demagogia è una forma degenerata della democrazia, la sua periferia interna. I classici la situavano al punto terminale della democrazia costituzionale o “buona”. Era la conseguenza di un impoverimento della società, del timore della classe media di vedere indebolito il proprio status e dei meno abbienti di perdere quel poco che a fatica avevano guadagnato. In questo scontento che contrapponeva i pochi ai molti poteva emergere un astuto demagogo che metteva in campo forze nuove, desiderose di farsi largo ed emergere.
Oggi la demagogia usa il linguaggio dell´antipolitica per esprimere opposizione alla classe politica attualmente esistente con il prevedibile obiettivo di scalzarla con una nuova. Se poi questa classe politica si è macchiata di corruzione ciò rende l´arringa del demagogo più facile ed efficace. Il Movimento Cinque Stelle rientra in questa categorizzazione demagogica. Beppe Grillo ha fatto dell´antipolitica la sua battaglia e alle recenti elezioni amministrative quel linguaggio ha dato i suoi frutti. La crisi economica e i recenti e meno recenti scandali politici hanno fatto da benzina. Ma che cosa è esattamente l´antipolitica?
Quando si parla di antipolitica nelle società democratiche si usa una parola molto imprecisa. Chi la usa non suggerisce infatti di ritirarsi nella solitudine di un convento, oppure di vivere solo di e per la famiglia, o solo di e per il lavoro. Chi usa l´espressione antipolitica vuole presumibilmente criticare il modo con il quale la politica è praticata ma in realtà sfruttare lo scontento che esiste ed è forte verso le forme tradizionali di esercizio della politica. Non è la politica l´obiettivo polemico e nemmeno la forma partito. Non è la politica perché il parlare di antipolitica è comunque un parlare politico, addirittura uno schierarsi partigianamente, e questo è a dimostrazione del fatto che nelle società democratiche non c´è scampo alla politica, nel senso che ogni questione che esce dal chiuso della domesticità è e si fa politica. Diceva Thomas Mann in un saggio esemplare sull´impolitico che nella società democratica anche chi si scaglia contro la politica è costretto a farlo con linguaggio politico, a farsi partigiano della sua causa. Ci si schiera e si entra nell´agone. L´antipolitica non è possibile.
Così è oggi: non c´è niente di più politico di questa persistente critica della politica. A ben guardare l´obiettivo polemico non è neppure la forma partito, l´associarsi cioè per perseguire o ostacolare determinati obiettivi e progetti politici. Anche i più astiosi demagoghi dell´antipolitica – anche l´arrabbiato Beppe Grillo – si presentano alle elezioni! Come scriveva Ilvo Diamanti su Repubblica a commento del recente voto amministrativo, il termine “antipolitica” sottintende una valutazione poco convincente quando è usata per spiegare il voto al Movimento Cinque Stelle – benché questo si sia alimentato pantagruelicamente dello slogan dell´antipolitica. Accettando di presentarsi alle elezioni ha accettato le regole democratiche della competizione e, soprattutto, messo in campo persone che, nonostante il linguaggio demagogico di Grillo, vogliono fare politica e discutono di problemi che sono politici, dall´ambiente alla corruzione, agli interessi privati nella cosa pubblica. A ben guardare gli elettori del Movimento sono semmai iperpolitici e vedono tutto in chiave politica (un termine al quale hanno dato un significato negativo, salvo… usarlo proprio per far politica). Scriveva Diamanti che i grillini “mostrano un alto grado di interesse per la politica” e in passato molti di loro hanno votato Lega Nord e anche Pd e Idv. La demagogia non piace ma è innegabile che chi si identifica con il Movimento del demagogo ha una visione politica, non antipolitica. E su questa visione ci si deve interrogare e ad essa occorre controbattere.
Il movimento Cinque Stelle opera come un partito e se vorrà persistere nel tempo dovrà strutturarsi come un partito. Nella democrazia rappresentativa non c´è scampo a questa regola. L´esperienza di Berlusconi insegna: avere i mezzi finanziari non è sufficiente poiché senza struttura e idee propositive la prima grossa sconfitta si rivela fatale. Perché un partito, se partito è, deve essere capace non solo di vincere ma anche di perdere. Un partito nato per solo vincere è un partito destinato all´estinzione. La memoria sulla quale ogni compagine si struttura creando identità collettiva si consolida anche grazie alle sconfitte, esperienze che uniscono, non meno delle vittorie. Quindi il Movimento Cinque Stelle se vuole consolidare la propria presenza nella politica nazionale dovrà essere pronto a scendere nell´agone sapendo che può perdere. La prepotenza verbale del suo leader rivela che questa non è ancora la sua condizione. Se sarà un partito di sola vittoria sarà di breve durata.
Perché dopo la protesta ci sarà la prova del fuoco del potere praticato. Essere eletti, avere una presenza nelle istituzioni, implica fatalmente prendere in mano quel potere urlando contro il quale il movimento di protesta è nato vittorioso. Si tratta di una regola ferrea che contraddice quel che ci aveva abituato a pensare una Democrazia Cristiana che stava in sella sapendo che non rischiava alternativa grazie alla guerra fredda: ovvero che il “potere logora chi non ce l´ha”. Questa massima andreottiana valeva appunto perché chi aveva il potere sapeva di non rischiare di perderlo, cosicché a logorarsi erano appunto coloro che non potendolo avere per vie ordinarie (vittoria elettorale) dovevano scendere a patti con chi lo aveva già a costo di sporcarsi le mani. La massima andreottiana designa una condizione di irrilevanza della democrazia elettorale. Ma in una sana democrazia dove le elezioni funzionano davvero da deterrenza, e sono quindi rischiose (come si è visto il 6 e 7 maggio), allora il “potere consuma chi ce l´ha”. E quindi le vittorie dei movimenti di protesta rischiano di spegnersi in fretta. La vicenda patetica della Lega Nord prova questa regola. Le ali se le scotta chi più si avvicina al sole. Il Movimento Cinque Stelle o diventa un partito e quindi accetta la sfida di essere vittima della critica di “antipolitica”, oppure scompare. Ma se non scompare, allora deve darsi obiettivi e linguaggi che non sono più quelli della demagogia, roboanti, rozzi, e troppo facili.
La Repubblica 10.05.12