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"Due assassini su uno scooter. Tornano gli incubi del passato", di Michele Brambilla

Quelli del 26 marzo 1971 che in via Bernardo Castello ammazzarono il portavalori delle case popolari Alessandro Floris. Uno studente fotografò l’agguato da una finestra e quell’immagine diventò il simbolo della follia che stava per esplodere. I due assassini appartenevano al primo gruppo di lotta armata nato in Italia: si chiamava XXII Ottobre.

Da quel giorno si scatenò l’inferno. Il sostituto procuratore Mario Sossi, che sosteneva l’accusa al processo contro la banda XXII Ottobre, verrà rapito a Genova dalle Brigate rosse il 18 aprile del 1974 e rilasciato solo il 23 maggio successivo. Il procuratore generale Francesco Coco, che non aveva ceduto al ricatto dei brigatisti (scarcerare i terroristi detenuti in cambio della liberazione di Sossi) sarà ucciso, insieme con gli uomini della sua scorta, l’8 giugno del 1976. Qualcuno dice che Genova fu la culla delle Brigate rosse. Di certo il bilancio della colonna genovese, nata nel gennaio 1975, è terrificante: nove omicidi, sedici ferimenti, vari attentati e aggressioni.

Genova ancora una volta sarà una culla? Il ferimento di Roberto Adinolfi un nuovo drammatico inizio? Nessuno in città ci vuole credere.

Il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo e presidente della Conferenza episcopale italiana, era un giovane prete negli anni bui del brigatismo genovese. Ci riceve all’Istituto superiore di scienze religiose di via Serra, in centro, prima di una conferenza. «Esprimo la mia sincera vicinanza, anche nella preghiera, al dottor Adinolfi e alla sua famiglia. Ho sentito notizie di una guarigione rapida e senza gravi conseguenze», sono le sue prime parole. Poi l’analisi: «È un fatto di violenza e come sempre la violenza distrugge solo, e non costruisce nulla».

Sa che il momento è brutto, e vuole commentare anche il dato sull’astensionismo, a Genova particolarmente alto: «È un dato che rincresce, questa disaffezione alla politica non è un segno bello». Ma non vuole credere che tutto questo l’antipolitica, la crisi, l’agguato – sia il segno che a Genova e in Italia stia per tornare il terrorismo: «In quegli anni, dal Sessantotto in poi, ero all’università: ho visto e vissuto quella stagione, che mi sembra però esprimesse un carattere ideologico e quindi una matrice molto diversa da quella di oggi. Non credo che ci siano identificazioni da fare».

Al comitato elettorale di Marco Doria incontriamo Mauro Passalacqua. Era un sindacalista della Fiom e ha un ricordo nitido di quegli anni: il primo maggio del 1976 passò la notte in fabbrica, all’Ansaldo, perché le Brigate rosse avevano annunciato un attentato e bisognava vigilare. Anche lui pensa che non ci siano analogie possibili. «Io il clima lo trovo completamente diverso». Perché gli operai allora stavano peggio? «No, stavano meglio. C’era un grande movimento di massa e si lottava per grandi conquiste: lo statuto dei lavoratori, i contratti di categoria, la contingenza. Oggi siamo in una fase di difesa».

«Quella di oggi – continua – è una società violenta, e c’è molta disperazione: ma nei luoghi di lavoro non c’è simpatia per i violenti». Allora sì, c’era simpatia, e qualche inconfessabile complicità. «A un certo punto si fece una riflessione. Perché è verissimo che, prima, nelle fabbriche c’erano aree di ambiguità. Arrivammo alla conclusione che il terrorismo era il nemico mortale della classe lavoratrice. E lo isolammo. Lasciammo sul campo il compagno Guido Rossa». Come tutti i vecchi sindacalisti, Passalacqua ricorda bene il giorno dei funerali dell’operaio dell’Italsider Guido Rossa, ammazzato dalle Br il 24 gennaio del 1979 per aver denunciato un collega che distribuiva volantini con la stella a cinque punte. C’erano duecentocinquantamila persone e il presidente Pertini, a quei funerali: forse fu proprio quel giorno che all’eversione cominciò a mancare la terra sotto i piedi.

Era una guerra. Il 28 marzo 1980 la colonna genovese delle Brigate rosse subì una sconfitta militare forse decisiva. I carabinieri fecero irruzione nel covo di via Fracchia, un appartamento intestato a un’insospettabile signora, e nello scontro a fuoco che ne seguì furono uccisi quattro brigatisti. Qualcuno parlò addirittura di una strage programmata: di certo quel giorno si capì che lo Stato non aveva più esitazioni, e si incrinò il mito dell’inviolabile struttura clandestina delle Br.

«Chi ha vissuto quella stagione non ha di quegli anni la visione edulcorata che hanno tanti intellettuali di sinistra», dice Alfredo Biondi, a quei tempi politico liberale e avvocato di parte civile in tanti processi contro i terroristi. Come ha vissuto il ferimento di Adinolfi? «Ricordando tante cose: il suocero di mio figlio, Felice Schiavetti, era presidente degli industriali di Genova e fu gambizzato. Nel covo di via Fracchia c’era una lista con il mio nome, e una mappa del mio quartiere».

«Vuol sapere chi è Roberto Adinolfi?», ci dice il suo parroco, don Fernando Primerano: «Vive in un condominio normalissimo in un quartiere medio, non ostenta nulla, lui e la moglie vengono in parrocchia a fare i corsi per i fidanzati. Una persona umile, sempre pronta al servizio». Eppure, gli hanno sparato. Pochi o tanti che siano, quelli che non distinguono fra uomini e simboli sono tornati.

La Stampa 08.05.12