Esce il saggio di Gustavo Zagrebelsky sulle ragioni della disaffezione verso i partiti. L´emancipazione delle democrazie dalla religione non significa perdita di dimensione mitica. I movimenti esibiscono segni e sigle privi di energia, di messaggi riconoscibili e forti sul nostro futuro
Dove nasce questa disaffezione alla politica che pervade fino all´orlo le nostre società? Cosa allontana sempre di più il linguaggio dei politici da quell´intreccio di impulsi, emozioni, speranze che plasma la nostra esperienza? E perché, forse mai come oggi, l´onda lunga della politica sembra gonfiarsi nello tsunami dell´antipolitica – per riprendere l´efficace metafora usata da Scalfari nel suo editoriale del 30 aprile? Una risposta penetrante a queste domande è fornita adesso dall´ultimo saggio di Gustavo Zagrebelsky, appena edito nelle Vele di Einaudi col titolo Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza. Certo, a fomentare tali umori antipolitici, ci sono gli eterni privilegi della “casta”; i fenomeni, sempre più vistosi, di corruzione; la difficoltà, da parte dei partiti, di uscire da una lunga fase di stallo, elaborando proposte credibili di governo. Ma c´è anche qualcosa di più e di più profondo che attiene al loro lessico – come un tarlo interno che lo depaupera e lo consuma, lo svuota e lo appiattisce su un piano di superficie, privandolo di spessore e linfa vitale.
Si tratta di quella fenomeno degenerativo che Zagrebelsky sintetizza con il termine di “de-simbolizzazione”. Diversamente da autori come Rawls o Habermas, che vedono nella politica un´attività guidata da procedure razionali, egli riconosce nella dimensione simbolica una riserva di senso fondamentale dell´agire collettivo. Come è stato messo in luce dalla grande cultura sociologica di Weber e Durkheim, ma anche dalle fondamentali ricerche storiche di Marc Bloch ed Ernst Kantorowicz, la fenomenologia del potere è inaccessibile se separata dalla funzione che in esso gioca la sfera del mito. L´emancipazione della politica dall´ancoraggio religioso, conseguente alla secolarizzazione, non significa affatto perdita di dimensione mitica, come ha ingenuamente supposto la tradizione illuministica, contrapponendo frontalmente mythos e logos. Secondo lo stesso Weber, del resto, è proprio dalla “gabbia di acciaio” della burocratizzazione che si è generata per reazione, nei primi decenni del Novecento, l´esigenza di una nuova politica carismatica, con gli esiti, anche tragici, che conosciamo. La conseguenza che se ne deve trarre è che ogni volta che si è preteso di ridurre la politica a semplice pratica amministrativa, soffocando la sua originaria carica energetica, questa si è rovesciata in pulsione aggressiva, disponibile ad essere usata da chiunque se ne fosse impadronito attraverso nuovi miti irrazionali.
Zagrebelsky intensifica questa linea di ragionamento, riconoscendo nel simbolo un´entità a doppia faccia, in continuo transito tra realtà soggettiva e istanze oggettive, positivo e negativo, passato e futuro. Canale di accesso del soggetto verso una dimensione inafferrabile con i soli strumenti razionali, esso, una volta oggettivato in norme e istituzioni, diventa un potente fattore di integrazione sociale. Senza il simbolo, se si riducesse l´esperienza umana all´astrattezza della pura ragione calcolante, non potrebbe esistere né società né politica. Perché alla base di entrambe vi è quella capacità di rimando a qualcosa d´altro, quella spinta progettuale, che costituisce insieme la condizione e il significato della vita collettiva. Symbolon, come raccontato nel Simposio di Platone, è il risultato della riunione di due parti disgiunte che, dichiarando la propria insufficienza, si congiungono in un intero che le comprende nella forma dell´attrazione reciproca. Ma senza mai perdere la loro tensione costitutiva, senza mai riposare in una pace definitiva. Perché dietro la faccia in luce del symbolon si affaccia sempre la minaccia oscura del diabolon – di una nuova, e più letale, scissione tra diversi che si interpretano come assoluti opposti. Lo stesso pronome “noi” – che unisce i distinti in un´appartenenza comune – porta dentro di sé un potenziale contrasto col “voi”. È perciò che Zagrebelsky ricorda, con Simmel, che, per fare società, non basta il “due”, diviso tra amore ed inimicizia, ma serve il “tre”, in cui i contrasti soggettivi si sciolgono nell´oggettività di istituzioni terze.
Al continuo pendolo tra soggetto e oggetto fa riscontro il passaggio, interno allo stesso simbolo, da una valenza positiva ad una negativa e viceversa. Di grande suggestione è l´esempio, centrale nella nostra tradizione, della Croce – passata senza soluzione di continuità da segno, nudo e spoglio, di dolore e contrizione a simbolo di trionfo e anche di persecuzione nei confronti di miscredenti ed eretici, per poi di rifluire in una sorta di insignificanza, misera posta in gioco di lotta politica tra schieramenti avversi. Per non parlare della sua terribile perversione nella croce uncinata nazista, che pure accese la fiamma dell´entusiasmo in un intero popolo, mobilitandolo contro altri miti contrapposti. Come ricorda anche Chiara Bottici in Filosofia del mito (Bollati Boringhieri), se si leggono in sovrapposizione Il mito dello stato di Cassirer e Le riflessioni sulla violenza di Sorel, si coglie il segreto perno intorno al quale uno stesso simbolo aggressivo sembra ruotare su se stesso, trascorrendo da un polo all´altro del quadrante ideologico del tempo.
L´ultima dialettica cui Zagrebelsky riconduce la dinamica simbolica è quella che va dal passato al futuro. Certo il simbolo affonda la sua radice in una falda originaria – nel riferimento al mondo naturale o ad un´esperienza vissuta e dunque già passata. È in tal modo che esso acquista quella forza legittimante che lo pone a fondamento di norme ed istituzioni – in mancanza della quale queste poggerebbero sul vuoto della pura effettività o su una obbligatorietà senza giustificazione. Ma per potere, appunto, persuadere gli uomini ad obbedire alle legge, i simboli che le sostanziano devono essere rivolti al futuro, portare dentro un modello di società, parlare non solo alle generazioni presenti, ma anche a quelle che verranno. È di Franz Rosenzweig l´acuta osservazione che, a differenza della monarchia, vincolata alla continuità biologica della successione dinastica, il meccanismo elettorale della democrazia è portato a rompere il filo tra le generazioni. Zagrebelsky riconduce questo dato istituzionale a quel deficit simbolico che costituisce la malattia più insidiosa delle democrazie contemporanee.
Torniamo così alla questione iniziale dell´antipolitica. Anch´essa naturalmente lavora sui simboli. Ma su simboli vuoti di contenuto, costruiti nel deserto simbolico dell´attuale politica. Certo, partiti e movimenti continuano ad esibire segni, sigle, emblemi – disegni di fiori, piante o animali. Ma privi di energia, di valori riconoscibili, di messaggi forti sul nostro futuro. Pure sagome senza vita, affidati a studi pubblicitari interessati soltanto all´efficacia della grafica, alla grammatica dei sondaggi e al riempimento multicolore delle schede elettorali.
Nel momento in cui i partiti smarriscono la loro rilevanza simbolica, l´antipolitica tende ad impadronirsene spostando la linea del conflitto dall´ambito dei progetti di società a quello dello scontro, privo di contenuti, contro la stessa politica. Stretta tra le ricette tecniche di pura amministrazione dell´esistente e le aspirazioni di movimenti senza programmi e senza prospettive, la politica continua a perdere terreno. Ma ciò che può apparire un destino dipende pur sempre da attitudini ed opzioni che è ancora possibile, e necessario, mutare.
da La Repubblica