L’Europa della moneta unica cerca di cambiare volto. Per la prima volta dall’inizio del secolo, cioè dalla fondazione, potrebbe modificare il suo profilo arcigno, quello di chi chiede ai cittadini del continente solo tagli e sacrifici, quello che suscita proteste di massa come a Barcellona ieri, e mostrare, invece, la faccia benigna dell’unica istituzione in grado di assicurare l’araba fenice dei nostri tempi, la crescita. Così, se nei prossimi mesi si realizzassero davvero le premesse e le promesse che si annunciano in questi giorni, si potrebbe avviare una significativa inversione dei fondamentali compiti nelle funzioni tra l’Europa e gli stati nazionali: alla prima la responsabilità della spesa, ai secondi la guardia dei bilanci.
Gli italiani non hanno certo dimenticato il biglietto da visita con cui l’euro si presentò, quello dei famosi «parametri di Maastricht» da rispettare, con il relativo prezzo.
Una parola che, anche negli anni che seguirono all’introduzione della moneta unica, divenne sempre associata all’Europa: tassa. Quella che pagammo per entrare subito nell’euro e che ci fu imposta da tutte le manovre finanziarie varate dai nostri governi, con l’alibi delle decisioni di una istituzione lontana dal cuore degli europei e insensibile alle necessità dei cittadini. Era l’ossessionante «vincolo esterno», quello che costringeva i politici nostrani a fare cose sgradevoli, che mai, naturalmente (?), avrebbero fatto di loro volontà.
Il mutamento di ruoli sul teatro della scena europea potrebbe essere determinato, come quasi sempre accade, non da improvvisi assalti di coscienza politica e di responsabilità civile dei governi nazionali, ma dalla spietata realtà. Perché gli Stati non hanno più un soldo da spendere e l’unica possibilità di mettere in campo i miliardi di euro necessari a un’inversione di rotta nella stagnazione continentale si può trovare a Bruxelles e a Francoforte. Il motivo, al di là delle sofisticherie tecniche degli economisti, si può riassumere con parole abbastanza comprensibili a tutti: la Ue può finanziare grandi infrastrutture, capaci di muovere lavoro e occupazione, a tassi molto più bassi di quelli che dovrebbero sborsare Roma e Madrid, per non parlare di Atene e Lisbona.
La Banca europea per gli investimenti, infatti, se sarà trovato un accordo nell’incontro previsto agli inizi della prossima settimana, potrebbe assicurare fino a 300 miliardi per grandi opere nel nostro continente attraverso i cosiddetti «bond per la crescita». E’ vero che l’operazione dovrebbe essere preceduta da una ricapitalizzazione della Bei, ma la garanzia della tripla «A» su questi bond dovrebbe costituire un tale vantaggio da rendere molto conveniente una simile partita di giro tra Stati nazionali e istituzioni comunitarie.
Tale progetto per lo sviluppo europeo, l’unico che sembra avere realistiche possibilità di riuscita, perché non trova l’ostilità pregiudiziale della Merkel, sempre contraria invece agli eurobond, richiede una condizione assoluta, cioè l’impegno degli Stati nazionali al rigore dei bilanci pubblici. Alla vigilia delle elezioni francesi e sotto l’influsso delle promesse elettorali di Hollande, si sono agitate troppe illusioni sulla possibilità di un allentamento degli impegni su deficit e debiti nella zona euro. Come avverte Monti, del resto, nei suoi ripetuti inviti a non pensare che si possa ottenere una crescita sforando i conti.
Ma è davvero possibile una tale inversione di ruoli tra Europa e Stati nazionali? Innanzi tutto bisogna affrontare una facile obiezione alla tesi di una Ue sempre taccagna guardiana dei bilanci. E’ naturalmente vero che Bruxelles ha dispensato, attraverso i famosi «fondi strutturali», un fiume di denaro ai cittadini e ai governi europei. Sia per aiutare le regioni continentali più svantaggiate, sia per sostenere le categorie economiche più deboli. La distribuzione di questi soldi, però, è stata sempre condizionata dalle lobby più forti in sede comunitaria e i fondi o non sono stati utilizzati, come spesso è capitato per quelli destinati all’Italia, o sono finiti per obiettivi ben diversi da quelli che erano stati individuati. Per questi motivi, l’Ue, anche se in questi anni non ha lesinato finanziamenti per lo sviluppo, non è mai apparsa come una risorsa per la crescita, ma sempre come un’idrovora nei risparmi dei cittadini.
I tempi, ora, sembrano donare all’Europa la possibilità di cambiare un’immagine talmente negativa da giustificare persino le idee più strampalate, come quella di un ritorno alle monete nazionali. Potrebbe costituire un paradosso, ma di paradossi è piena la storia. Proprio nel momento di maggiore crisi del sogno perseguito dai suoi padri, come i nostri Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, l’Unione europea potrebbe compiere uno scatto in avanti nel governo del continente. Perché il controllo della fiscalità comunitaria e la moneta unica non bastano più a giustificare la sua esistenza. Per sopravvivere, ora deve salvare gli europei dal declino del loro ruolo nel mondo. Forse non lo farà per l’impulso generoso e visionario degli autori del «Manifesto di Ventotene», ma per le crude necessità dell’economia. Ma fa lo stesso.
La Stampa 04.05.12