La mancanza di occupazione stabile riduce le entrate necessarie a pagare i servizi essenziali. E le donne rinunciano sempre di più a cercare un lavoro. Dopo la cura del rigore la politica dovrà dire che società vuole costruire
C’era una volta il lavoro stabile. Riflesso di una pienezza che copriva l’intero ciclo di vita degli italiani e paradigma di una società che faceva perno intorno alla fabbrica e all’ufficio. Ritmi scanditi, spazi organizzati, sincronie che comprendevano l’attività lavorativa vera e propria, ma anche la sfera personale, il tempo libero, le relazioni sociali, lo spazio dedicato alla famiglia.
Un sistema che corrispondeva a un modello di società fondata sul lavoro incastonato nella nostra Costituzione che formava un cittadino corrispondente a quel modello di organizzazione, integrando le imprese, i lavoratori, i partiti, i sindacati in un processo collettivo di governance sociale.
Oggi non è più così. Le trasformazioni del mercato del lavoro hanno progressivamente trascinato nella crisi anche quel modello. E con esso il sistema generale di garanzie e di protezione che su quell’organizzazione avevano preso forma: il sistema formativo, la sanità pubblica che si occupava di ridurre i rischi individuali derivanti da malattie, le pensioni di anzianità, garanzia di sicurezza economica dopo che si era smesso di lavorare.
Oggi le cose stanno drasticamente cambiando. E quest’anno il primo maggio segna, anche simbolicamente, lo spartiacque tra la «società del lavoro», centrata sulla stabilità, e la nuova «società dei lavori» che rispecchia l’instabilità economica, politica e sociale.
Le trasformazioni che hanno investito il mercato del lavoro hanno finito per coinvolgerne la qualità stessa. I contenuti sono diventati meno manipolativi e più cognitivi, le conoscenze richieste in genere polivalenti e le prospettive di carriera più discontinue. A livello macro la lista delle professioni si è allungata e si è frazionata, anche se non c’è stata un’ascesa della professionalità media quanto, piuttosto, una gamma più estesa di skill, resa necessaria dall’intreccio fra domande vecchie e nuove. E nel complesso mentre la natura della prestazione è cambiata in meglio, perché è diventata soggetta a minori vincoli e ha dato maggiore discrezionalità al lavoratore, i termini della prestazione sono cambiati in peggio, anche perché le forme di tutela tradizionale non sono riuscite a coprire impieghi più instabili e tragitti più discontinui.
Rapporti di lavoro meno subordinati e più autonomi, perfino nel mondo del lavoro dipendente; meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; meno uniformi nell’ambito contrattuale, progressivamente diventato più circoscritto e assai più articolato. Situazione che ha visto il crescere di una forma di pendolarismo tra lavori saltuari, visti come una formazione dal basso, per molti versi funzionali alla discontinuità del lavoro.
Incombe un modo di lavorare che impone a tutti un ritmo teso, perfino concitato, poco importa se si è dipendenti o autonomi. E mentre nel secolo scorso i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività, adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità e incertezze. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità e la precarietà.
Un lavoro che cambia, cresce ed evolve in fretta, ma senza riferimenti precisi. E che contiene molti aspetti ambigui: basta pensare al fatto che la fatica viene abbattuta ma gli infortuni continuano. E sotto questo punto di vista nel post-fordismo c’è ancora molto fordismo: il nuovo non ha soppresso il vecchio, dal quale del resto proviene.
Nel complesso la gabbia entro cui ha funzionato la società del lavoro dal dopoguerra alla fine del Novecento era forte e visibile, mentre la ragnatela entro cui si colloca la società dei lavori del nuovo millennio è fitta e impalpabile, un reticolo di snodi orizzontali, anziché un’intelaiatura di gerarchie verticali. Persino quote consistenti di assunzioni, oggi, passano attraverso reti informali attivate dai lavoratori stessi, dalle loro famiglie e dai loro conoscenti. E ciò rende più forti quei sistemi di relazione che Mark Granovetter ha definito «legami deboli», e più deboli quei sistemi che un tempo erano forti.
Modificandosi la composizione tecnica del mondo del lavoro, le tutele che dovevano preservare il lavoro stesso si sono ristrette al solo mondo del salariato tradizionale, tenendo fuori da qualsiasi concreta rete protettiva le nuove e variegate forme di lavoro autonomo subordinato e quelle dell’occupazione marginale e sommersa.
Anche il ruolo sociale della famiglia è entrato in crisi con il venire meno della centralità del lavoro stabile, perché non rappresenta più un soggetto di riferimento dell’intervento protettivo dello stato sociale. Una rottura i cui effetti si sono propagati nei territori socialmente prossimi. A cominciare dalla scuola, oggi non più considerata come un percorso propedeutico alla ricerca di un lavoro e come un investimento per aumentare le possibilità future di reddito.
La crisi del modello economico e sociale, fondato sulla centralità del lavoro stabile, si è alimentato dei caratteri specifici della società contemporanea, come la crescita della curva demografica in termini di età media, l’aumento della spesa sanitaria legata anch’essa all’invecchiamento della popolazione e alla cronicizzazione delle malattie, l’aumento dei fabbisogni sociali e dei relativi costi in termini di erogazione dei servizi.
E mentre crescono le esigenze, decresce la massa di lavoratori su cui esercitare la leva fiscale per finanziare i servizi, con una pressione ormai insostenibile che si concentra quasi esclusivamente sulla quota, in costante calo, dei lavoratori a tempo indeterminato e sui pensionati.
Fattori d’ordine strettamente finanziario si sommano, poi, a quelli di natura sociale. D’altra parte gli strumenti di protezione costituiscono gli aggregati più ampi delle voci di bilancio statale, racchiuse nel capitolo della «spesa pubblica», che sono state il principale strumento politico con cui i governi hanno tentato di bilanciare le storture prodotte dal funzionamento del mercato. La spesa pubblica, il cui obiettivo principale è stato quello di garantire l’equilibrio economico e sociale, ora non sembra più capace di rispondere ai crescenti bisogni sociali, alle crisi finanziarie e al divaricarsi della forbice tra spese ed entrate dello Stato.
Le tensioni che si aprono sui settori classici del welfare, a cominciare da quello del lavoro e da quello pensionistico, rappresentano il quadro di crisi. E l’urgenza di riforme che imprimano una direzione che permetta di uscire dal guado.
Il Premier Monti pochi giorni fa, ha detto che non è possibile pensare alla riproposizione di politiche keinesiane, orientate cioè alla spesa pubblica, per far ripartire il Paese. Un’affermazione che corrisponde a un’idea di società coerente con la riforma del mercato del lavoro presentata dal Governo. Una scelta che impone alle forze politiche di chiarire se il sistema di riforme di cui si discute esula da questioni di contingenza economica e vuole affermare un modello di società rispetto a un altro. I partiti devono dire con chiarezza da che parte stanno, perché i cittadini hanno il diritto di capire e di scegliere.
Sul tavolo non c’è solo una questione tecnica, ma una scelta che più politica non potrebbe essere, perché porta con sé la responsabilità di disegnare il futuro modello sociale. Ed è quindi ora che la politica torni in campo.
da L’Unità