Gli effetti delle manovre restrittive aggravano la crisi delle famiglie, del welfare, delle imprese. I famigerati mercati, che un anno fa ci imponevanol’austerità, oggi ci condannano perché nella recessione l’austerità produce autodistruzione. Il dramma è che
non siamo all’accademia ma stiamo parlando della vita delle persone, di povertà crescenti, del futuro dei nostri figli.
Serve una svolta politica. Uno scatto che vinca la rassegnazione. In Italia, ma prima ancora in Europa. Perché è l’Europa la dimensione che può riscattare questa politica inefficace e screditata. Speriamo che domenica prossima i francesi eleggano Hollande, avviando così una nuova stagione dopo il dominio del centrodestra. Intanto il muro del «pensiero unico» liberista – in base al quale abbiamo tentato di curare come una crisi del debito pubblico quella che invece era una crisi degli squilibri europei e della mancata integrazione – si sta lesionando. Gli stessi economisti, le stesse organizzazioni internazionali, le stesse cancellerie che ne hanno fatto un mantra, ora cominciano ad ammettere che la vera priorità è la crescita, e persino che il rigore da solo la rende impossibile. Purtroppo alle parole non seguono ancora fatti conseguenti. È il pericolosissimo stallo del momento. Fermo restando che la spesa corrente va vigilata e resa più produttiva, non è affatto vero che l’alternativa sia tra l’aumento delle tasse e l’aumento dei tagli alla spesa. L’alternativa sta nell’aumento degli investimenti: per le infrastrutture, per la ricerca, per la conoscenza. Un’operazione, appunto, che oggi solo l’Europa può fare: singolarmente gli Stati non troverebbero finanziamenti sul mercato a tassi sostenibili.
È anzitutto a una crisi della politica che l’Europa deve reagire. E per farlo, a dispetto del paradigma liberista, deve promuovere una nuova idea di pubblico. Non il pubblico che coincide con la gestione dello Stato e delle sue amministrazioni, ma un pubblico che progetti e governi il bene comune, nell’equità e nella sussidiarietà, nella politica industriale e nel sostegno all’innovazione. Da noi, in Italia, abbiamo problemi aggiuntivi. Quando è nato il governo Monti, qualcuno l’ha inteso come un traguardo definitivo, come la sostituzione della competizione politica. I tecnici che fanno dimenticare i politici. Oggi il governo dei tecnici, dei migliori esecutori delle «direttive» europee, si vede voltare le spalle da tanti entusiasti cantori di ieri. Noi invece non siamo delusi perché lo abbiamo sempre pensato come un esecutivo di transizione, come il garante di una tregua istituzionale che non avrebbe comunque cancellato la battaglia politica tra destra e sinistra. Il problema riguarda gli obiettivi del governo Monti: rimettere l’Italia in sicurezza dopo il rovinoso fallimento della destra nostrana, partecipare alla transizione europea (e domani, se vincerà Hollande, sostenere con più forza l’impegno per la crescita e l’integrazione), uscire dalla Seconda Repubblica restituendo ai cittadini una legge elettorale finalmente compatibile con i valori della Costituzione. Si vogliono ancora perseguire questi obiettivi?
La domanda è legittima perché le convulsioni recenti non si spiegano solo con l’imminente voto amministrativo. È vero che – mentre le ricette liberiste hanno squadernato i loro difetti e mentre la Bce guidata da Mario Draghi ha operato un primo mutamento
di rotta – in Italia l’onda della sfiducia verso la politica si è fatta di nuova altissima, quasi uno tsunami che non distingue le storture e la corruzione dai tentativi di rinnovamento. L’antipolitica non è solo italiana: èunfenomenoche riguarda tutto l’Occidente. Ma da noi l’antipolitica è già stata al governo. Con
Berlusconi e Bossi. E ha prodotto disastri. Abbiamo già dato: non ci servono altri comici e altri cavalieri. Ma il clima di sfiducia e la crisi sociale – quella vera, dei pensionati che non hanno i soldi per mangiare e curarsi, dei lavoratori che perdono il salario, degli imprenditori che si tolgono la vita per non vedere
morire la loro impresa – rischia di paralizzare la risposta delle nostre istituzioni. Che ci sia bisogno di una svolta, lo dimostrano
anche i pentiti del Pdl che tifano Hollande. Ma il trasformismo italiano oggi non si ferma qui: in tanti, trasversalmente, vogliono mandare a monte non già la transizione di Monti bensì la prossima legislatura. Vogliono usare il combinato tra le novità europee e la crisi di fiducia nella politica per bloccare le riforme dei prossimi mesi e impedire un governo politico, una alternativa dopo il voto. Nasce da qui il tam tam sulle elezioni anticipate. Oppure l’idea (diffusa, ahinoi) di boicottare la riforma elettorale. Sarebbe troppo nobile dire che vogliono far proseguire la grande coalizione. La verità è che vogliono proteggersi dai rischi di un cambiamento. Ma scherzano col fuoco. Rendere inutili le prossime elezioni politiche vuol dire mettere a rischio la stabilità delle istituzioni democratiche.
L’Unità 29.04.12