Mentre l’economia sembra sull’orlo della crisi totale, i beni confiscati alla mafia non vengono sfruttati nel modo giusto. Questo a causa di meccanismi amministrativi frenanti o, ancora peggio, di strumenti giuridici non abbastanza efficaci. Un «polmone» come quello dei beni sottratti alle cosche – forse 20 miliardi di euro nell’insieme – potrebbe rappresentare, invece, un
potenziale strumento di crescita raggiungibile, prima di tutto, con
una semplificazione amministrativa che velocizzi e renda più snelli gli iter di vendita e messa a reddito dei patrimoni confiscati. Sembra incredibile che non si faccia subito qualcosa.
Bisognerebbe pensare a uno strumento giuridico nuovo, che normalizzi tutti gli aspetti e permetta anche un cospicuo sgravio
dello Stato facendo entrare più soldi nelle casse pubbliche. Si eviterebbe così che gli stessi immobili, rimasti invenduti e bloccati, perdano valore e di conseguenza interesse all’acquisto.
Perché da un settore così importante, anche sotto il punto di vista etico e sociale, non si riesce a recuperare niente di vantaggioso per tutto il sistema collegato con le imprese sane e con le istituzioni? Lo strumento giuridico che regola la materia ha bisogno di essere aggiornato: servono più modernità e più snellezza. L’Agenzia dei beni confiscati, nonostante l’impegno
degli addetti e dei responsabili, non è in grado di superare i vincoli «ingessanti». Per questo è urgente rimettere a reddito l’immenso patrimonio accumulato dalle confische: bisogna fare in modo che i benefici delle liquidità recuperate abbiano effetti sui lavoratori e le imprese sane, sulle istituzioni, le forze dell’ordine e la magistratura. Sono soggetti che soffrono per la mancanza di risorse finanziarie e che sono impegnati nella salvaguardia della sicurezza dei cittadini.
Esistono oggi meccanismi perversi nel rapporto tra Stato e demanio che andrebbero annullati perché sviliscono ogni potenzialità di questi beni. Spesso il demanio non comunica all’Agenzia le
esigenze di utilizzo degli immobili da parte dello Stato, mentre
dovrebbe farlo entro il limite di trenta giorni, trascorsi i quali l’Agenzia è libera di venderli, darli in affitto, o gestirli sotto la vigilanza di una Autorità dello Stato che assicurerebbe un ulteriore e rigido controllo sui soggetti che li acquistano. Perchè va detto con forza: i beni sequestrati non devono in ogni caso tornare nelle mani dei mafiosi, come ripetono giustamente
a gran voce tutte le persone e i movimenti impegnati nella
battaglia per la legalità. Un altro aspetto critico riguarda l’obbligo di affidare i beni confiscati direttamente ai sindaci dei Comuni in base alla rispettiva appartenenza geografica. Li si affida a loro che scelgono da soli l’uso finale. E, considerato che molto spesso finiscono in mano ai Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, oppure a sindaci non dotati di strutture
tecniche adeguate, credo che uno strumento giuridico nuovo debba
rispondere in modo più efficace anche a questo problema,
imponendo che i patrimoni confiscati vengano rimessi sul mercato piuttosto che tra i cespiti comunali. Insomma, non dovrebbero esistere vaghezze perché esse sono una garanzia per la criminalità organizzata, e purtroppo sono la ragione per cui una parte della società crede ancora che la mafia sia più forte dello Stato.
Manager qualificati e competenti presenti sul mercato dovrebbero
essere messi a disposizione dell’Agenzia seguendo il criterio meritocratico. L’Agenzia infatti è una struttura che, se dotata di
risorse finanziarie adeguate, potrebbe permettersi di utilizzare professionalità specializzate e dunque di occuparsi della gestione dei patrimoni confiscati in modo da sfruttarne al meglio le potenzialità per fini che sono di utilità sociale. La figura del manager dell’Agenzia peraltro è molto importante per il successo di qualsiasi tentativo di miglioramento, perché deve essere in grado di interloquire con le associazioni di categoria, con i sindacati e con la stessa Autorità di vigilanza dello Stato che in sinergia verifica l’obiettivo di difendere il lavoro ed i lavoratori. Bisogna infatti indirizzare le aziende confiscate verso le reti sane, rimetterle nel mercato e avvicinarle alle altre aziende virtuose preferibilmente appartenenti allo stesso settore, utilizzando tutte le forme di collaborazione e partenariato e/o di partecipazione in consorzi legali. Purtroppo sappiamo già che non basta formare nuovi manager specializzati. L’impegno è più complesso perché bisogna combattere la forza dei consorzi illegali dentro cui le imprese operavano prima della confisca e dentro cui si lavorava senza problemi grazie alla mafia che non faceva mancare nulla: dalla sicurezza alle commesse (persino pubbliche) fino al mercato sicuro, anche se tutto avveniva sempre dentro una zona d’ombra «blindata».
Riguardo a questa realtà, in veste di delegato di Confindustria ai rapporti con le istituzioni e per la legalità, sono sicuro che il ministro dell’Interno, quelli della Giustizia e delle Finanze daranno il loro contributo di analisi. Anche Confindustria è a disposizione per qualsiasi sinergia e collaborazione. La mia idea è di tentare un primo esperimento, un progetto pilota, in un territorio scelto dove ci sono tanti beni confiscati: partiamo da lì per far sì che la ricchezza generata crei grande valore etico e culturale, in modo da accreditare la convenienza economica della
legalità e di screditare così la mafia. Questa potrebbe essere per il Paese una sfida non solo concreta, ma anche simbolica.
*Delegato nazionale Confindustria
l’Unità 29.04.12