Il governo si è arreso, al solo tentativo di mettere mano alla consolidata lottizzazione della Rai e al prraticello mediatico di Berlusconi. Il ministro Giarda ha chiuso l’argomento informando alla Camera che per la riforma della governance, la modifica dei criteri di nomina, «non c’è più tempo», data «l’imminente scadenza del Cda». Si cancella così la promessa di «sorprese» e interventi fatta dal presidente del Consiglio, Mario Monti, alla platea televisiva di Fabio Fazio, a gennaio.
Ora si rischia di prorogare l’attuale Cda non solo fin dopo le amministrative, ma magari fino alle elezioni politiche, per la gioia del Pdl (salvo Bonaiuti) che vuole mantenere Lorenza Lei come direttore generale. Oppure il nuovo vertice si dovrebbe rinnovare con i criteri spartitori della legge Gasparri in commissione di Vigilanza. Il presidente, Sergio Zavoli aprirà il seggio dopo l’approvazione del bilancio Rai da parte dell’assemblea degli azionisti (il 4 e l’8 maggio, ma potrebbe slittare).
IL PD FUORI DAL TAVOLO
Ma sul voto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, non cambia idea: «Il Pd non torna indietro, se non cambia la legge non votiamo, gli altri partiti vorranno si voteranno i loro consiglieri da soli, così sarà un 9 a zero», conferma Matteo Orfini, responsabile Informazione del Pd, «e in questo caso il governo Monti, il centrodestra e chi parteciperà si dovrà assumere le proprie responsabilità su questo grave vulnus». L’uscita di Giarda era inaspettata, e «come si fa a dire che non c’è più tempo
quando per sei mesi il governo si è inabissato? Monti dica che questa Rai gli va bene così, con Lorenza Lei dg e la lottizzazione». Ieri anche la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, ha criticato la mancata promessa del governo, così come Bonanni della Cisl. E anche l’Usigrai in un tweet afferma che «chi vuole la riforma Rai dopo le parole di Giarda deve avere il coraggio di litigare con Monti. Noi lo sosterremo. No alla prorogatio», anche perché il Cda, di centrodestra, non ha preso in considerazione «i piani editoriali del Tg1 e della Tgr», compresi i vicedirettori. E al Tg1 per le amministrative resta in campo la squadra minzoliniana. Il non partecipare al gioco da parte del Pd, comunque vada, mira a far esplodere il bubbone, tanto più se Pdl e Lega voteranno. Il Terzo Polo non si scopre e aspetta le amministrative. Secondo la legge Gasparri i parlamentari in commissione di Vigilanza nominano sette consiglieri (la spartizione tra partiti), un altro spetta all’azionista, il ministero dell’Economia, che indica anche il presidente. Figura di «garanzia» che deve essere votata dai due terzi dei parlamentari in Vigilanza (i nomi in pista sono sempre Anselmi o Enrico Bondi, valido anche come dg e corteggiato anche da Berlusconi, torna il nome di Giancarlo Leone come dg). Giarda ha annunciato che il ministero metterà sul sito i curricula dei due nomi proposti.
L’Idv ha sempre detto di non voler votare, ieri Antonio Di Pietro ha accusato il governo di «immobilismo» però ha proposto a Zavoli di far depositare in Vigilanza le candidature e il relativo «curriculum professionale, ma anche di attivare audizioni pubbliche» dei candidati per valutarne «indipendenza, competenza, professionalità e assenza di conflitti di interesse». L’aspettativa
è che Zavoli risponda. Il capogruppo Pd in Vigilanza, Fabrizio
Morri, tenta anche lui la via istituzionale: «Il governo, come ha fatto per le Authority con un decreto, potrebbe ridurre a cinque i consiglieri, e insieme una modifica, nello Statuto Rai, che assegni poteri pieni al presidente di garanzia».
La situazione è aperta, bisogna vedere cosa faranno Pdl e Lega: il primo, che fa parte della «strana maggioranza », potrebbe non forzare la mano col voto solitario, mentre la Lega punta alla presidenza Rai se non alla direzione generale. Per il Pd comunque la palla torna al governo. «Hanno due possibilità», prosegue Orfini, «o intervenire con un decreto sul quale trovare l’accordo, o con un commissariamento, oppure prorogare l’attuale Cda». La soluzione peggiore, tanto più dopo le dimissioni di Nino Rizzo Nervo. Per l’esponente Pd «chi sta lì dentro dovrebbe dimettersi, il primo dovrebbe essere il presidente Garimberti, e il consigliere Van Straten». A Viale Mazzini, intanto, il piano lacrime e sangue con altri tagli da 46milioni di euro (molto sul prodotto) non è stato votato dall’attuale Cda, ma dovranno invece dare il via libera ai palinsesti autunnali (palinsesti) che saranno presentati agli investitori il 18 e il 20 giugno.
l’Unità 28.04.12
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“IL GOVERNO NON PASSA PER LA CRUNA DELLA RAI”, di GIOVANNI VALENTINI
Eravamo stati purtroppo facili profeti a prevedere che il governo Monti, condizionato dal suo “azionista di riferimento” e cioè dal partito-azienda che tutela gli interessi di Mediaset, non sarebbe riuscito a modificare la “governance” della Rai. E infatti, a più di tre mesi dall´impegno assunto pubblicamente in tv, il presidente del Consiglio ha dovuto fare retromarcia e rassegnarsi allo statu quo.
Il Professore aveva annunciato che in poche settimane il suo governo sarebbe intervenuto sull´assetto di viale Mazzini e invece ecco che tutto resta come prima, all´insegna di quella scellerata legge che reca le impronte digitali dell´ex ministro Gasparri. A dispetto non solo della ragione, ma soprattutto delle attese e delle sollecitazioni arrivate dalla società civile: dall´Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti; dalla Federazione nazionale della Stampa, il sindacato di categoria; dalle associazioni degli utenti; dai movimenti dei cittadini come “Move on”. E anche da alcuni partiti politici, dal Pd all´Italia dei Valori.
Non è solo l´ennesima rappresentazione del conflitto di interessi. È anche la resa di un governo a sovranità limitata, forte con i deboli e debole con i forti, incapace di passare per la “cruna dell´ago”: vale a dire quell´incrocio pericoloso fra politica, informazione e affari, che ha già avvelenato la storia della Seconda Repubblica portando il Paese sull´orlo del baratro. Oggi ne stiamo pagando tutti il prezzo, ognuno di tasca propria.
Nonostante gli annunci e le promesse di Monti, dunque, il vertice della Rai – scaduto a fine marzo – verrà rinnovato in forza della legge imposta dal centrodestra nella passata legislatura, rinviata alle Camere dall´ex presidente Ciampi, criticata dall´Unione europea, modellata sugli interessi dell´azienda che appartiene all´ex capo del governo. E bisognerà vedere, anzi, quando sarà possibile nominare il nuovo consiglio di amministrazione di viale Mazzini, prima o addirittura dopo le prossime elezioni politiche, perché già si profila all´orizzonte una prorogatio – per così dire diplomatica – che sarebbe verosimilmente il colpo di grazia nell´agonia del servizio pubblico.
In questa circostanza, il governo di “impegno nazionale” non è stato in grado neppure di far accettare la regola di una riduzione del Cda da 9 a 5 membri, in linea con l´austerità applicata ad altri enti pubblici e organismi istituzionali a cominciare dall´Autorità sulle Comunicazioni. A parte il risparmio di quattro emolumenti, con annessi e connessi, una ragione di simmetria avrebbe dovuto prevalere sulle resistenze della partitocrazia e sulla logica della lottizzazione. Ma tant´è: quello che vale perfino per l´Authority non può valere per la Rai, concorrente diretta o sleeping partner di Mediaset.
Ora il governo Monti ha un´unica strada per uscire dall´impasse e salvaguardare la propria autorità: indicare al più presto il suo rappresentante nel nuovo Consiglio di amministrazione della Rai, in funzione di ago della bilancia; designare il futuro presidente che dovrà ottenere la maggioranza qualificata dei due terzi nella Commissione di Vigilanza; e infine indicare il nome del direttore generale che dovrà essere votato dallo stesso Cda. La famigerata legge Gasparri, avendo trasferito il controllo dell´azienda dal Parlamento a palazzo Chigi, si rivelerà così un boomerang per i suoi artefici e potrà essere utilizzata come un grimaldello per scardinare il forziere partitocratico di viale Mazzini. A quel
punto, forse potremo rivolgere un pensiero grato e riconoscente perfino all´ex ministro e ai coautori di quella pseudo-riforma.
La Repubblica 28.04.12