C’è un fenomeno scivoloso, e ciclicamente ricorrente in Italia: quello di chi, usando una ideologia regressiva e devastante, intende travolgere i partiti e le rappresentanze. E lo fa in nome di assoluti e indeterminati nuovi inizi da affidare agli scaltri professionisti dell’antipolitica, a digiuno di ogni senso dello Stato. Bene ha fatto, quindi, il Presidente della Repubblica, a coronamento di una riflessione meditata e supportata da una veduta storica ampia, a porsi in esplicita controtendenza rispetto all’oscuro spirito del tempo, che è ormai rigonfio di una brutta antipolitica trionfante anche grazie al cedimento di molti chierici. Il discorso di Pesaro ha posto degli argini robusti. Tutti i pittoreschi personaggi emersi nel ventennio trascorso prima scagliano velenose frecce contro il partito, raffigurato quale simbolo del male assoluto, e poi però ne creano uno del tutto nuovo e lo pongono alle loro esclusive dipendenze personali e familiari, facendone così una creatura davvero bestiale, che si rivela ancora più degenerata e mostruosa di quegli antichi organismi che con sprezzo hanno demolito.
Giornali come Il Fatto non l’hanno presa bene. E Di Pietro, facendo riemergere dagli abissi una sua anima profonda, invano camuffata con improbabili contorsioni pansindacaliste, ha difeso l’uomo qualunque. Molti commentatori hanno poi pigramente interpretato il discorso di Pesaro solo come una metaforica sculacciata a Grillo e alla sua fastidiosa turbolenza espressiva. Ma non era l’astuto e ricco comico il bersaglio principale di Napolitano che, volando alto, si interrogava piuttosto su delle regolarità storiche assai inquietanti che attraversano la vicenda repubblicana.
Il Presidente ha colto, con le antenne distaccate dello statista, che oggi monta un clima molto pericoloso e che in giro c’è uno scivolamento culturale ben più preoccupante di quello impersonato dal comico dalla bestemmia facile. E riguarda grandi giornali, opinionisti influenti, movimenti di società civile, settori forti dell’economia, insomma porzioni assai rilevanti delle classi dirigenti italiane. Le élite che contano non partono da un sobrio bagno di verità (e cioè dal riconoscimento che i campioni dell’antipolitica, una volta al potere, si sono rivelati un terribile disastro) ma continuano a perseverare nelle loro magiche invocazioni di nuove candidature carismatiche, che possono emergere solo coinvolgendo tutti i partiti (anche quelli più affidabili) in uno stesso destino, pieno di macerie.
Questo tradimento delle classi dirigenti, che non esitano ad imboccare il viottolo scosceso dell’antipolitica pur di difendere degli interessi ristretti, preoccupa molto, non la pura indignazione di cittadini increduli e arrabbiati dinanzi a certi abusi, a pratiche oscene e ruberie disarmanti. Poiché l’antipolitica è una grande e tragica potenza, che cavalca con leggerezza un’onda favorevole proprio per la decadenza culturale della politica da anni appaltata a imprenditori e carrieristi cinici, sarebbe del tutto vano il proposito di arrestarla contrapponendo la superiorità etica della bella lingua politica rispetto al volgare dialetto della squallida antipolitica.
Perché monta l’antipolitica? Non basta una semplice e giusta demonizzazione di un fenomeno degenerativo che ha dimensioni enormi e sempre più inquietanti, anche perché tutti i media ne fanno un senso comune e lo alimentano con iniezioni demagogiche continue. Ormai esistono fondazioni-partito, trasmissioni-partito che si agitano con un ben definito progetto. C’è chi punta sul tecnico o il manager che emerge solo dopo la distruzione dei partiti. Altri insistono invece sul partito del sindaco-magistrato o su liste della società civile raggruppate sul collante metapolitico dei beni comuni. La distruzione degli antichi distruttori (Lega, Berlusconi) non porta cioè ad archiviare la lunga e tragica stagione di formazioni irregolari ma rilancia nuove declinazioni di partiti personali, di scorciatoie carismatiche e patrimonialistiche.
Dalla eutanasia della antipolitica che ha preso nelle mani tutto il potere si passa a nuove sperimentazioni di antiche ricette. Non basta però mostrare l’insorgenza blasfema del lessico antipolitico per sbarazzarsene. Occorre anche ricostruire la forza materiale e culturale della politica. La questione del partito è tutta qui: la politica organizzata attorno a grandi culture è la più efficace lotta pratica contro la personalizzazione del potere che ha provocato solo rovine, conflitti di interesse, ladrocini. A quanti nutrono illusioni sulla tecnica o sulla società civile come alternativa permanente allo schematismo destra/sinistra occorre rammentare che, se il governo non cura il cupo disagio sociale, la sorte della politica è già segnata: dopo il tecnico inefficace a spegnere il malessere di ceti senza futuro può benissimo irrompere il comico irresponsabile. Il partito serve ancor più in tempi burrascosi per connettere organizzazione, cultura, società contro la grande illusione del potere personale riciclato nelle sue versioni antiche o redivive.
L’Unità 27.04.12