Con perfetta sintonia – unità e risanamento –, Napolitano e Monti hanno celebrato il 25 aprile come si conviene a una classe dirigente seria, non accecata dalla retorica e dal fanatismo, e dalla partigianeria che perseguita il “bel paese” da molto prima che Dante tuttavia lo battezzasse così. Chi ha gli anni, o ha studiato un po’ la storia dei secoli italiani Otto e Novecento, ricorda la lunga polemica del dopoguerra tra “risorgimentisti”, che consideravano resistenza e liberazione come l’ultima guerra d’indipendenza, e “comunisti” che la definivano lotta di liberazione sociale e premessa di rivoluzione.
Polemica che faceva tutt’uno con le divisioni tra nordisti e sudisti, “vento del nord” e restaurazione dello stato, monarchici e repubblicani, lavoratori e imprenditori, baroni e contadini, laici e clericali, europeisti e nazionalisti, antifascisti e nostalgici, ricostruzione e ristrettezze di bilancio: tutte antinomie superate da un’ondata di buonsenso civile che unì nel profondo, senza annullarne le differenti culture, politici, imprenditori, sindacati, intellettuali, elettori.
È a quel buonsenso diffuso che ci hanno richiamato ieri Napolitano dalla piazza di Pesaro e Monti dal museo della Resistenza di via Tasso (dove fra i torturati e poi fucilati alle Ardeatine fu anche quel colonnello dei granatieri Montezemolo di cui abbiamo scritto ieri su Europa, come Cazzullo sul Corriere della Sera e Brambilla su La Stampa: lo ricordo per la signora Tiziana Orru che mi ha scritto in proposito da Torino, e con la quale mi scuso se per oggi la consueta rubrica “Lettere” assume una veste diversa).
«Sui muri di questo museo – ha detto Monti – c’è l’evidenza di un’esperienza drammatica di tanti giovani che hanno contribuito con le loro sofferenze a liberare il paese. Oggi si tratta di rigenerare un’esperienza di Liberazione meno drammatica, certo, ma liberazione da alcuni modi di pensare e vivere, a cui ci eravamo abituati e che impedivano al paese di proiettarsi nel futuro».
Quel buonsenso comune allora fu incarnato da De Gasperi e Togliatti che si promettevano calci e si aiutavano nell’indirizzare le istituzioni e le masse, di Valletta e Di Vittorio che litigavano alla Fiat e scendevano a Roma insieme per risolverne i nodi coi ministri.
In quei governi decisivo fu il ruolo dei ministri liberali (Soleri, Corbino, Menichella, Einaudi: li nomino perché, almeno a chi sa qualcosa, sia più palese la differenza tra i patrioti liberali e le marionette che cinquant’anni dopo avrebbero tentato di usurparne il nome). Monti non doveva né poteva indugiare a descrivere quale Italia quegli uomini presero in mano nel ’45 (l’“anno zero”, come fu definito da chi non accettò mai la presunta “morte della patria” ma vide in quei giorni una patria che sarebbe rinata). Ha però accennato, con un salto indietro di settant’anni, a come ne uscirono. «Non esistono facili vie d’uscita, né scorciatoie per superare la crisi. Il rigore porterà gradualmente alla crescita sostenibile e al lavoro».
Gradualmente. Da Monti a Einaudi. Anche l’economista torinese, professore universitario, senatore del regno, governatore della Banca d’Italia dopo la Liberazione, ministro del bilancio con De Gasperi, presidente della repubblica dal cui scrittoio uscirono le meravigliose insolenze contro “parole magiche” e “scatoloni vuoti” della pseudopolitica e dell’antipolitica, anche Einaudi, dicevo, e gli altri fecero le cose durissime, e poi dure e poi indulgenti, con gradualità.
Così, dall’“anno zero”, quando la produzione industriale era ridotta al 23% di quella del 1938, ci trovammo in soli quattro anni, nel ’49, ad aver superato quella d’anteguerra; e subito dopo il Pil aumentò alla media di 5-7 punti l’anno: autentiche premesse del miracolo economico degli anni Cinquanta-Sessanta, sia pure con enormi squilibri. Reddito di 350mila lire per abitante a Milano, 66mila ad Agrigento. Due milioni e 200mila disoccupati la cui salvezza ancora nel ’55 era affidata all’emigrazione, prima che gli strumenti dello sviluppo girassero a pieno regime «rispettando l’ortodossia monetaria e il liberalismo economico», cioè equilibrio di bilancio, risanamento della finanza, accumulazione capitalistica; e rinnovando o creando strumenti di economia di stato quali Iri, Eni, Cassa del mezzogiorno, riforma agraria.
Nel frangente, prendeva corpo nella conferenza di Messina e coi trattati di Roma del 1956 la grande promessa del risorgimento, dell’antifascismo e della Resistenza: l’Europa. Per arrivarvi, quell’Italia coraggiosa s’era piegata dieci anni prima a pagare i debiti del fascismo firmando la pace di Parigi, senza attardarsi, come avrebbero voluto alcuni grandi vegliardi, a contemplare le proprie ferite e restare ai margini della storia che ripartiva. Il resto è cronaca. Via via che i patrioti morivano e i «modi di vivere» ricordati da Monti facevano, di ciascuno e di tutti, volontari o involontari profittatori, ricominciò la marcia indietro del paese fino all’orlo del fallimento.
Forse ci salveremo. E lo dovremo soprattutto a Napolitano e a Monti, che hanno ripristinato la moralità e la sapienza di Einaudi e De Gasperi.
da Europa Quotidiano 26.04.12