Sembrava una “tirata” di Pier Luigi Bersani pro domo sua, invece mi pare che siano bastate poche ore per capire che quanto sta accadendo oltralpe avrà un riflesso sicuramente non irrilevante nel nostro paese. Nel Pd, ma non solo. Non è un caso che anche uomini intelligenti (seppur antipatici e in contraddizione con sé stessi) della destra come Giulio Tremonti e Antonio Martino lo stiano dicendo apertamente. Il risultato francese ci dice infatti che quando sul tavolo c’è una questione forte prevalgono le risposte a quella questione, sì o no, e non le divagazioni. E la questione che si pone in Francia (e in Italia) riguarda l’assenza, in un tempo in cui sarebbe necessario, del ruolo dell’Europa. La crisi in cui siamo immersi ha infatti una dimensione mondiale ed evoca una risposta politica quantomeno continentale. Il fatto che la Merkel abbia “sequestrato” l’Europa costringendola alla strategia di manutenzione finanziaria voluta dai mercati e che il resto degli altri paesi abbia dimostrato di non essere in grado di liberarsi dall’appropriazione indebita di leadership da parte della Germania non può continuare: i francesi hanno detto questo. Hanno chiesto che su questo tema la risposta sia precisa. Perciò hanno premiato Hollande, punito Sarkozy, non apprezzato la medietà di Bayrou e fatto esplodere il consenso al radicalismo antieuropeo di Marine Le Pen.
È vero che dobbiamo attendere il secondo turno, ma tutto fa pensare che il risultato appannaggio di Hollande sarà confermato. Perché già quello che è accaduto domenica scorsa dice che la sapienza degli elettori è sempre più forte delle elucubrazioni di chi dovrebbe interpretarli. I popoli mettono infatti sulla lavagna delle elezioni il loro sentimento, la loro anima, e ne escono disegni non sempre previsti dalle forze politiche. Potrà anche accadere che Hollande, una volta eletto presidente, non si riveli all’altezza della sfida, perché il suo partito tradizionalmente molto prudente sul piano europeistico gli tiene il guinzaglio piuttosto corto, o perché la vendetta dei mercati si rivela troppo forte o perché la Merkel anche senza la copertura di Sarkozy dimostra di saper resistere. Può darsi. Ma resta il messaggio inequivocabile di questo risultato. Un messaggio che necessariamente ci intriga e ci obbliga a delle scelte. Nel “monopoli” della reinvenzione del ruolo dell’Europa nella stagione della globalizzazione della finanza e dell’economia, tocca ora a noi italiani e al Pd in particolare posare la nuova tessera. Una tessera che per quanto ci riguarda ha due facce, una relativa al rapporto col governo Monti e l’altra più interna.
Il Pd, nell’Europa del dopo- Merkozy, dovrà incalzare e accompagnare il governo Monti nella definizione del contributo dell’Italia nella nuova fase. Monti ha personalmente le caratteristiche per guidare questo processo, ha autorevolezza e competenza riconosciute, ha la prudenza cui lo costringe la sua “strana” maggioranza interna, ma anche l’intelligenza per capire come si possa riportare in Europa, cioè nelle istituzioni comunitarie, ciò che la Germania ha sequestrato per sé. Come ai tempi della decisione del primo governo Prodi di tentare la strada difficile dell’ingresso nell’Unione monetaria europea, anche oggi i partiti, il Pd in particolare, devono assistere il governo nella nuova sfida. Ma al Pd è richiesto anche un lavoro di definizione non ideologica del proprio ubi consistam. Ciò che hanno annunciato in questi giorni Casini ed Alfano, cioè l’intenzione di scomporre e ricomporre il paesaggio politico italiano come si poteva pensare di fare fino a qualche mese fa cambiando nome e cambiando forma ai contenitori politici, rivela una distanza dal paese e dalla consapevolezza della credibilità attuale delle forze politiche veramente grande. Se ha ragione Mannheimer quando ci ricorda che la percentuale di fiducia degli italiani nei partiti è precipitata al 2 per cento (e l’esperienza ci dice purtroppo che ha ragione), allora il problema non è quello di spostare pezzi di elettorato che non sono più interessati a questo gioco, quanto quello di ridare un senso al consenso, cioé di rimotivare gli elettori verso la politica e i partiti.
Siamo tutti dentro questa difficoltà. Dimostra di esserlo Casini quando parla di un nuovo Partito della nazione in cui si ritrovino laici e cattolici (a chi interessano in questo momento tali categorie?) e lo sarebbe lo stesso Pd quando facesse un discorso tutto ideologico teso a recuperare appartenenze famigliari più o meno sopravvissute in Europa (a chi interessano in questo momento i discorsi sul legame con la socialdemocrazia o con il Pse?).
Mi ha colpito l’incipit del primo discorso di Hollande dopo il risultato elettorale: «Signore e signori, miei cari concittadini…» superando, lui sicuramente socialista, i nostri imbarazzati «amici e compagni». Ci è infatti richiesta oggi veramente una sana laicità, nel senso non di un anticlericalismo d’antan, ma di una capacità di parlare delle cose concrete (ciò che vogliamo noi) e dei valori che servono alla politica (la moralità e la competenza). «L’antipolitica si combatte con la buona politica» ricorda spesso Bersani. Ecco, di cosa sia la buona politica e di chi abbia titolo e credibilità per farla e rappresentarla oggi, dovremo parlare seriamente.
da Europa Quotidiano 24.04.12