È scritto nella Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Non possiamo farci derubare di questa conquista. Non possiamo darla vinta a chi scommette sulla sfiducia, il discredito, il ripiegamento individualista. Perché siamo nel mezzo della crisi sociale più dura dal dopoguerra, ed è in gioco il futuro dei nostri figli.
È vero che la cattiva politica ha prodotto l’antipolitica. Ma è vero anche che l’antipolitica ha già guidato, attraverso il populismo della destra e il mito del partito personale, la Seconda Repubblica. E le macerie ci stanno cadendo addosso. Il fallimento di quest’ultimo decennio ha ridotto drasticamente la competitività della nostra economia, ha sfilacciato il tessuto civile, ha strappato le reti di solidarietà sociale. L’antipolitica era già al governo: non sarà oggi un giullare o un nuovo Cavaliere a riscattare ciò che ci è stato tolto, magari rinverdendo gli slogan berlusconiani.
La corruzione che infetta l’Italia, e che in questi giorni emerge nella distrazione di finanziamenti pubblici a fini vergognosamente privati, è una zavorra che scoraggia la partecipazione democratica e rischia di compromettere gli stessi equilibri istituzionali. Va combattuta con forza. Usando machete e bisturi, dove servono. Ma non si può, non si deve consentire a nessuno di fare di ogni erba un fascio. Chi parla genericamente della politica e dei partiti, come se fosse un ceto indistinto, come se il conflitto sociale fosse assente, va indicato per quello che è: un propagandista di quelle oligarchie che, temendo il protrarsi della crisi, vogliono depotenziare la risposta democratica e l’autonomia dei corpi intermedi. L’esito della crisi è la partita vera. Stiamo parlando di chi dovrà pagare di più: i giovani, i lavoratori dipendenti, le piccole e medie imprese, il terzo settore, i pensionati oppure le rendite immobiliari e finanziarie.
La politica democratica serve a questo. Il partito serve a questo. A reagire alle ingiustizie e alle sofferenze insieme a una comunità. A dare rappresentanza agli interessi e tentare di comporli in un programma di governo. Non c’è rinnovamento possibile, non c’è cambiamento nel senso dell’uguaglianza e della solidarietà, senza percorrere la strada della democrazia partecipata. Questa è la politica per tanti giovani e tanti cittadini che si impegnano controcorrente. Sono volontari, lo fanno per senso civico, perché spinti da un dovere di solidarietà e da uno spirito altruistico: è inaccettabile che qualcuno paragoni, sia pure indirettamente, queste persone generose, questi costruttori del bene comune, con gli squallidi imbroglioni che riempiono le cronache dei giornali.
Si faccia la legge più severa sul controllo dei necessari finanziamenti pubblici ai partiti. Si imponga una cura dimagrante sui fondi, coerente con i sacrifici che compiono quotidinamente milioni di famiglie italiane. Si completi il percorso di pulizia istituzionale con la riforma elettorale, perché tutto sarà vano se vinceranno i difensori occulti e palesi del Porcellum. Ma nessuno si illuda: non ci sarà cambiamento senza testimoni di un nuovo civismo.
Sono gli eredi dei padri costituenti. Perché quella libertà di associarsi nei partiti è stata acquisita con la lotta. Non è stata un regalo. La democrazia non può vivere senza il coraggio e la libertà delle persone, e delle loro diverse idee. Mentre nella drammatica crisi di oggi si colgono chiaramente gli interessi di chi intende ridurre il circuito delle decisioni a tecnocrazie ristrette. L’autonomia dei partiti crea problemi. Ed è meglio, per alcuni, sostenere che le alternative non sono possibili, o non sono legittime, o non sono praticabili. I leader carismatici promettono decisionismi e disvelano impotenze. Ora speriamo che dalle elezioni francesi arrivi una smentita ai nostrani sostenitori della Grande coalizione permanente: la dimensione dell’alternativa non può che essere europea.
Ma c’è un altro principio che ispira l’articolo 49 della Costituzione. Sono i cittadini il soggetto principale della democrazia. È direttamente a loro che fa capo il diritto di concorrere al bene comune. I partiti non sono uno strumento monopolistico: sono un corpo intermedio, come altri. Un corpo sociale che si fonda anzitutto sulla passione delle idee. Il partito deve sapersi confrontare senza pretese di comando con le altre autonomie sociali, ma rispetto a queste ha un compito aggiuntivo di rappresentanza istituzionale. Nelle istituzioni il voto dei cittadini deve essere in grado di «determinare la politica nazionale». Il partito deve fare un bagno di umiltà, la sua trasparenza è la chiave di volta del rinnovamento necessario delle classi dirigenti, ma il decisore è qui: non nella finanza impersonale, non nelle oligarchie minacciate dal mercato. Il senso del partito è anche la sua responsabilità nazionale.
L’Unità 22.04.12