Alla fine dell’Ottocento lo scrittore Vamba, futuro inventore di Giamburrasca, creava l’onorevole Qualunquo Qualunqui del partito dei Purchessisti, propugnatore del programma Qualsivoglia e sostenitore del gabinetto Qualsiasi: sembrerebbe anticipare Guglielmo Gianninie Cetto Laqualunque ma sono radicali le differenze fra i diversi momenti, e ancor più con i dilaganti fermenti attuali contro i partiti. Alla fine dell’Ottocento, ad esempio, vi era sullo sfondo una retorica antiparlamentare conservatrice e una critica al sistema rappresentativo in sé fortemente presenti nel dibattito colto. E nel successo dell'”Uomo Qualunque” alla caduta del fascismo vi erano umori e veleni di lungo periodo assieme a paure e diffidenze per una democrazia ancora sconosciuta, dopo il lungo ventennio. Il movimento di Giannini scomparve rapidamente e l’Italia repubblicana è stata caratterizzataa lungo, invece, da una altissima e viva partecipazione alla politica: le denunce della “partitocrazia” che iniziarono a serpeggiare negli anni Settanta coglievano precocemente la fine di una stagione.
Una fine avvertita anche “dall’interno”: nel 1981 la critica di Enrico Berlinguer alla degenerazione dei partiti di governo («federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sottoboss”») fu il tentativo più alto di riportare la politica alla sua dignità ma forse anche il presagio di una sconfitta. E nello stesso anno un racconto di fantapolitica di Giuseppe Tamburano prevedeva e paventava per il 1984 quel che sarebbe avvenuto dieci anni dopo: il crollo per discredito dello “Stato dei partiti” e l’avvento di una Seconda Repubblica con «la sostituzione dei partiti e la restaurazione dei valori e degli interessi di una borghesia imprenditoriale senza più lacci e lacciuoli». E con un programma simile a quello di Licio Gelli. Il crollo del 1992-94 era dunque ben prevedibile, preceduto da un intreccio sempre più melmoso di occupazione partitica dello stato e di corruzione. E aprì la via all’esplodere dell’antipolitica, nelle forme del leghismo bossiano e dell’estraneità berlusconiana alla democrazia. E a nuovi, profondissimi guasti. Ma perché non se ne è usciti? Perché oggi il panorama appare più devastato e devastante di allora? Perché una “partitocrazia senza partiti” ha lasciato segni così negativi sulla seconda repubblica e si sono al tempo stesso sviluppate forme inedite di “banalità della corruzione”, strapotere delle cricche, familismi immorali? Perché, soprattutto, siamo accerchiati più drammaticamente di allora da pulsioni rozze contro la politica e al tempo stesso da un’incapacità dei partiti di rinnovarsi che non lascia moltissimi spiragli alla speranza? Forse su un nodo occorrerebbe riflettere meglio: nel crollo della “prima Repubblica” rappresentanze consistenti di una parte della “società civile”, per dir così, entrarono impetuosamente nelle istituzioni e nella politica sotto le insegne della Lega Nord e di Forza Italia. Vi portarono umori che si erano consolidati negli anni Ottanta: dalla diffidenza, se non ostilità, nei confronti dello Stato sino alle più differenti pulsioni ad una ascesa individuale sprezzante di ogni vincolo, incurante del bene comune. E fecero ampiamente e amaramente rimpiangere il personale politico precedente. Poco spazio trovarono invece altre parti della società, a partire da quelle che avevano il loro riferimento nelle culture riformatrici, nel rispetto delle regole e dei valori collettivi: e così, mentre le file del centrodestra si gonfiavano di animal spirits limacciosi e di rappresentanze talora impresentabili, il centrosinistra vedeva progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico e le proprie dinamiche interne. Vedeva progressivamente indebolirsi – o meglio, contribuiva colpevolmente a dissipare – quelle forme più ampie di partecipazione che la costruzione stessa dell’Ulivo avrebbe potuto e voluto alimentare. Sin dal suo inizio in realtà, in un seminario convocato a Gargonza per rilanciare quella ispirazione e quelle aperture, l’allora segretario del Pds Massimo D’Alema vi contrapponeva una superiorità dei partiti che largamente prescindeva dalla loro profonda crisi (Umberto Eco lo ha ricordato di recente in modo graffiante). Alla caduta del primo governo Prodi la chiusura in sé di partiti rissosi e divisi diventò dominante e portò al tracollo. Portò poi a guardare con perenne fastidio la ripresa di iniziativa della società civile: dal movimento dei girotondi sino alla “lezione non raccolta” del pronunciamento referendario e delle elezioni amministrative della primavera scorsa.
Ha origine anche qui l’incapacità di contrastare adeguatamente il degrado complessivoe al tempo stesso di combattere i crescenti e multiformi sussulti distruttivi di oggi, privi sia dei miti identitari leghisti sia dell’illusionismo miracolistico del Cavaliere delle origini. Alimentati più trasversalmente che in passato da una politica che non ha saputo evitare al Paese il disastro attualee non ha molti titoli per giustificare gli enormi flussi di denaro pubblico percepiti contro la volontà referendaria.
Una politica, soprattutto, che appare drammaticamente incapace di trovare in sé le forze per invertire la tendenza, unica via possibile per evitare il baratro. La speranza è l’ultima a morire ma il baratro sembra spaventosamente vicino.
Repubblica 19.4.12
******
L’ideologia “oracolare” e fondativa del comico. Il grillismo figlio del “Non”, di Michele Smargiassi
È un avverbio palindromo il grimaldello che può scardinare il quadro politico italiano. Una parolina di tre lettere che non ha significato, ma li nega tutti: non. Il MoVimento 5 Stelle, si legge nel suo “non statuto”, è una “non associazione”, “non è un partito” e “non lo diventerà in futuro”, non ha “organismi direttivi o rappresentativi”, non è di destra e non è di sinistra, non ha tessere, non ha una sede fisica e neppure un leader, anche se ce l’ha, lo sanno tutti. Il lessico comune, che non rispetta i non-statuti, li definisce “i grillini”: un capitale di sdegno, impegno e sincera voglia di cambiamento che ogni partito serio vorrebbe avere alle spalle, ma che un attore comico di successo, con intuitoe doti mediatiche, ha saputo catalizzare attornoa sé nell’Italia provvisoria dalle rivoluzioni continuamente tradite.
Quale sia il ruolo di Beppe Grillo nel MoVimento da lui battezzato (quella V maiuscola in mezzo al nome è la reliquia venerata dell’evento fondatore, il V-day, giorno del gran Vaffa, 8 settembre del 2007, Bologna, decine di migliaia di fan), sta all’articolo 3 del non-statuto che cita Grillo come “unico titolare dei diritti d’uso” di nome e simbolo del MoVimento 5 Stelle, in sostanza il proprietario del marchio senza il quale non si può agire a nome del movimento. Imprimatur amministrato con decisione, come sanno liste e gruppi e singoli a cui è stato negato con diffida scritta degli avvocati del nonleader. Movimento “dal basso” gestito dall’alto, movimento in cui «uno vale uno» ma dove Uno possiede personalmente la legittimazione di tutti. Eppure, come avverte Federico Fornero in un’analisi sul prossimo numero de Il Mulino, alla bomba grillina innescata nelle urne con percentuali da terzo partito, «l’etichetta di “partito personale” sta stretta».
Allora la definizione più calzante per questo singolare cocktail di spontaneismo e personalismo, di orizzontale e verticale, che condivide molte radici ma poche omologie con i movimenti antipolitici emergenti in Europa, dagli Indignados spagnoli ai “Pirati” nordici, forse è quella di “movimento oracolare”. La Verità del movimento sta solo in parte nel suo programma, che potrebbe essere quello di un partito ecologista se in Italia un dissennato ceto politico non avesse dilapidato la chance dei Verdi. Sta nel ricorso, costitutivo dell’identità stessa del MoVimento (la sede è un indirizzo Web, la tessera è un login ), alla Rete come entità in sé, più che come canale di comunicazione. «La Rete ha reagito male», «la Rete ha deciso». Come tutte le personalizzazioni mitiche di un’entità superiore, anche la Rete per i grillini esige un decifratore, un aruspice. Gli articoli dell’eponimo sul blog beppegrillo.it sonoi vaticini che dettano la linea su questioni non previste dal programma, e sfiduciano per eteronomia questo portavoce o quell’eletto, con scomuniche tanto perentorie quanto non emanate da un potere ufficialmente legittimato a farlo. «Beppe ha scritto che», è sufficiente: seguono proteste e tempeste nei meetup locali, raramente scissioni, più spesso accettazioni del responso.
Ma non è banale leaderismo mascherato. Il controllo oracolare garantisce la sopravvivenza dell’esperimento. Il non è un requisito vitale per un movimento che nega alla radice la politica esistente e verrebbe disinnescato dalla più piccola contaminazione: la non-politica può vivere solo se sfugge ad ogni definizione, anche passiva, se “vola” ( fuori, oltre, sopra, parole correnti nel vocabolario grillino) lontano dall’agorà civica dove incrociano i partiti che l’hanno ridotta in condizioni pietose. Questa è forse la vera missione in capo all’oracolo genovese: custodire la purezza del non, sacro Graal della contropolitica.
La Repubblica 19.04.12
1 Commento