Scuola e dispersione scolastica: quello italiano è un sistema dell’iniquità? Le funzioni storiche della scuola sono largamente note e generalmente condivise: garantire a tutti un buon livello d’istruzione, trasmettere valori e saperi della cultura nazionale e dell’umanità, offrire contesti formativi per la socializzazione e l’integrazione nel rispetto delle differenze. Proprio per queste sue funzioni di istruzione e educazione la scuola è un diritto umano, un organo costituzionale, un’istituzione sociale. E ancora, la scuola in quanto fonte di investimento sulle giovani generazioni è allora motore dello sviluppo della società. Questi obiettivi e mete istituzionali compaiono nella grande maggioranza delle carte costituzionali dei paesi europei e del mondo, per essere garantiti come diritti inalienabili dell’umanità: tuttavia troppo spesso si sono trasformati in slogan politici.
Il cuore del problema è presentato da una semplice domanda: queste funzioni, obiettivi e finalità sono davvero raggiungibili? Oppure sono pure mete e obiettivi per il futuro? In altre parole, le azioni e strategie di intervento puntano davvero al contrasto della dispersione scolastica, al raggiungimento di equità nei sistemi di istruzione, a portare tutti, ma davvero tutti, a quelle competenze necessarie per essere considerati liberi cittadini? La scuola e l’istruzione in generale sono da sempre sotto i riflettori dell’opinione pubblica, soprattutto nei momenti di trasformazione, di riforma, o quando gli investimenti si riducono drasticamente, come nei tempi che stiamo vivendo. Altre volte, e ciò avviene con maggiore frequenza negli ultimi anni, quando si analizzano i risultati scolastici raggiunti dagli studenti alla luce di indagini campionarie e in un’ottica comparativa, nazionale o internazionale. In tutti questi casi ritorna prepotentemente la questione di fondo: quanto la scuola favorisce apprendimenti significativi, tenendo conto delle differenze individuali e di partenza? Quanto la scuola riesce a perseguire quella semplice finalità che molti, da Eraclito a Morin, hanno indicato: educare non è riempire un secchio ma accendere un fuoco? Bisogna riconsiderare il problema delle diseguaglianze educative del sistema scolastico italiano, riprendendo quella sintetica ma assai realistica denuncia che la scuola di Barbiana lanciò agli inizi degli anni Sessanta: “in realtà la scuola ha un solo problema, i ragazzi che perde”.
A Palermo si verificano i massimi livelli di dispersione scolastica in Italia, una media del 27% con punte del 30%. In altre parole: le nostre scuole, malgrado l’impegno e le intenzioni, continuano a riempire le teste ma spengono i fuochi, le curiosità e le potenzialità di apprendimento nei ragazzi che maggiormente ne avrebbero bisogno. E’ vero, molto è cambiato dai tempi di Don Milani per lo sviluppo economico e il progresso scientifico. Ma la scuola risulta essere, adesso come allora, “diseguale”, vale a dire non riesce a colmare le differenze socio-culturali e gli svantaggi sociali, cioè dare di più a chi ne ha più bisogno. Amaramente bisogna constatare che, a fronte di tantissime iniziative nazionali e regionali, normative, progettuali e di sistema, che in questi ultimi anni si sono succedute, e forse per i troppi tentativi disorganici e sicuramente non sistematici, i risultati , viste le cifre di sopra, sono sostanzialmente inconsistenti. E i mali della scuola, denunciati cinquant’anni fa al momento dell’istituzione della scuola media unica, che doveva essere volano per superarli, ci sono ancora: selezione sociale, dispersione scolastica, disillusione e demotivazione giovanile, mancato accordo con il sistema-lavoro. Si sono sviluppate negli anni piste di riflessione, strumenti e progetti di intervento. Analisi e critiche sempre costruttive, certo, ma che mettono a nudo le diseguaglianze presenti e la scarsa equità del sistema, offrendo a studenti e a studiosi un quadro della problematica esistente a cinquant’anni dalla nascita della scuola media unica (o secondaria superiore di primo grado), nata per essere la chiave di volta del processo di alfabetizzazione e di crescita culturale orizzontale del nostro paese per ridurre le diseguaglianze sociali presenti nell’Italia degli anni Sessanta. Quelle diseguaglianze persistono oggi per intero.
Si è detto più volte che troppi segnali nella scuola di oggi indicano quanto la scuola si trovi in difficoltà rispetto alle proprie funzioni strutturali e mete educative. I segnali di dispersione nel sistema, di disaffezione e distacco da parte degli studenti, famiglie, ma anche docenti (quattro docenti su dieci cambierebbero mestiere) e formatori sono crescenti e differenziati. La scuola non sembra rispondere più a quelle funzioni, auspicate e spesso idealizzate, di ascensore sociale, di luogo di riscatto per alcuni strati della società, di acquisizione dei saperi e di promozione della cultura. Una scuola che nelle sue funzioni, ma anche nelle intenzioni e aspirazioni degli studenti, come anche nella pratica sociale, non risponde più alle richieste della società, non può essere attrattiva, non solo, ma difficilmente promuove e raggiunge gli obiettivi di inclusione e integrazione anche a chi è portatore di bisogni speciali: “gli ultimi della classe”.
Una scuola così la si può lasciare senza rimpianti, o, che è peggio, la si può frequentare senza illusioni, con il “moto inerziale” che non produce apprendimenti, né, figurarsi, “accendere fuochi”. Lasciare la scuola prima del tempo o lasciarla con la consapevolezza di aver aprreso poco o nulla è un problema, non solo del singolo allievo “speciale”, ma è un problema di tutti, perché si riflette sui dati complessivi che riguardano la crescita sociale collettiva. Specialmente di fronte a tale entità del fenomeno. Provare a contrastare questa deriva e rilanciare le funzioni non solo culturali, ma in special modo sociali dell’istituzione scolastica significa in fin dei conti, riflettere sui problemi derivanti dalla dispersione scolastica nell’accezione più ampia e condivisa e cioè come problema sociale e non semplicemente di “ambito” specificatamente scolastico.
Troppo spesso si è puntato il dito sulla scuola, dimenticando che essa è lo specchio della società, sottolineando la difficile o scarsa motivazione degli studenti nello studio, specie in certi ambienti sociali, la persistenza di pratiche didattiche poco attive o laboratori ali, oppure lo scollamento che spesso le istituzioni scolastiche hanno nei confronti della società e del territorio o ancora altro. Ma anche i mali della scuola sono sempre stati oggetto di riflessioni psico-pedagogiche e socio-politiche, di molti interventi legislativi, e di politiche scolastiche, in questi ultimi anni, proprio a fronte dei cambiamenti nella/della società, la scuola italiana sta rischiando di mancare l’appuntamento con quegli obiettivi inderogabili che è chiamata a raggiungere: istruzione e inclusione sociale per tutti e sono tanti i segnali che si vanno diffondendo e che testimoniano la scarsa equità del sistema di istruzione e formazione in Italia.
Da alcuni anni le riflessioni sull’efficacia dei sistemi di istruzione e formazione hanno cercato di chiarire quanto il concetto stesso di “uguaglianza” vada relativizzato rispetto ai punti di vista dell’individuo, dei gruppi sociali, delle istituzioni. E quanto più il processo di scolarizzazione si è allargato alla totalità degli individui, e quindi alle diverse fasce di popolazione, nei diversi contesti sociali e geografici, tanto più il discorso sull’uguaglianza ha fatto parlare di selezione scolastica e di forme di dispersione nella fruizione nell’istruzione. La doppia accezione di uguaglianza negli accessi alla scolarizzazione e negli apprendimenti, oltre a definire i diritti inalienabili per i cittadini alle diverse latitudini terrestri, allarga la questione aglin investimenti (politici ed economici) sull’istruzione e la formazione che le società sono pronte a compiere. Una recente analisi dell’OCSE sui risultati italiani conferma quanto da anni molte indagini hanno tristemente sottolineato: l’istruzione italiana conserva un basso livello di mobilità sociale; le differenze tra le regioni nascondono non solo differenze di risorse, ma anche la persistenza di fattori socio-economici nelle scelte delle scuola secondaria superiore per i propri figli.
L’istruzione come diritto porta dunque a discutere il piano delle disuguaglianze nella società e nella scuola, delle uguaglianze negli accessi e nei risultati. E come ben si è chiesto il premio Nobel per l’economia Amartya Sen: “eguaglianza di che cosa?”. Di opportunità, di trattamenti, di risultati? E il discorso si allarga ancora se si analizzano i destinatari: “eguaglianza tra chi?”. Uomini e donne, giovani e adulti, italiani e stranieri. Il concetto di equità sociale nell’istruzione introduce quindi il necessario collegamento tra uguaglianza e giustizia sociale, tra finalità e mezzi procedurali da adottare per il loro raggiungimento. No asta essere egualitari: l’eguaglianza deve essere “giusta”, non di parte e quindi avvantaggiare solo alcuni. In tale ottica gli studi, gli interventi e i progetti a contrasto della dispersione scolastica si sono differenziati e moltiplicati enormemente in questi decenni. Cresce la consapevolezza della complessità e multidimensionalità del fenomeno e della necessità di adoperare strategie e forme di intervento su diversi livelli. Ma di cosa parliamo, quando parliamo di dispersione scolastica e di equità nel sistema di istruzione? Di molte e diverse cose insieme.
E’ necessario esaminare il fenomeno attraverso l’analisi delle differenti forme di dispersione nel sistema di istruzione e formazione, per distinguere la sua complessa fenomenologia e per indicare le modalità progettuali di intervento maggiormente mirate. Che la dispersione scolastica sia un sintomo delle irregolarità e delle difficoltà di percorso è evidente. Ma che queste difficoltà siano significativamente collegate a studenti con specifiche caratteristiche personali e/o condizioni socio/economiche, o ancora ad alcuni contesti territoriali e tipologie di percorsi di studi, allarga il discorso all’equità del sistema.
La Costituzione del mio paese, l’Italia, sottolinea il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi ai capaci e meritevoli, fornendo a tutti un’istruzione obbligatoria e gratuita, ma c’è da chiedersi come mai il fenomeno della dispersione scolastica continui a toccare in modo evidente alcuni segmenti formativi e soggetti sociali in modo così consistente. Se continua ad esserci dispersione significa che quel mandato, che è obbligo, costituzionale è solo formalmente garantito, che non si riesce per molti casi a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (Art.3 Costituzione Italiana) e di fatto, le differenze all’ingresso, tra gli studenti, continuano a rimanere tali per tutta la durata del loro percorso scolastico e negli esiti negativi di tale percorso. Altrimenti bisognerebbe riprendere l’interpretazione che ne dava agli inizi degli anni Sessanta don Milani, ricordando che “il buon Dio avrebbe fatto nascere cretini e svogliati nelle case dei poveri”.
Ogni docente, formatore, dirigente scolastico o responsabile di strutture formative che abbia lavorato in questi ultimi anni sa, con estrema evidenza e consapevolezza, che sempre più le istituzioni scolastiche e formative attuano interventi volti ad “accogliere” gli studenti, a promuovere socializzazione e inclusione, alla prevenzione del disagio, al recupero degli svantaggi e delle difficoltà di apprendimento, al sostegno della genitorialità, alla lotta delle discriminazioni e della selezione scolastica, all’integrazione tra istituzione scolastica e agenzie formative. E tutti questi interventi sono direttamente o indirettamente collegati alle azioni volte alla prevenzione e contrasto della dispersione e degli abbandoni scolastici. E’ evidente che, visti i fallimenti delle azioni, perché tale è la sostanza dei fatti, specie in aree altamente depresse del sud del paese con punte massime del 30% di dispersi raggiunte nella città di Palermo, che il termine e il fenomeno “dispersione” rimanda sì ad alcune dimensioni “interne” al sistema scolastico, ma a molte, molte e molte altre dimensioni esterne” a quel sistema di carattere via via: psicologico, familiare, economico, giuridico, di contesto, ambientale, …dimensioni tutte correlate all’interno di quel vissuto totalizzante che è l’individuo con bisogni speciali, quale è un ragazzo propenso all’abbandono scolastico.
L’apprendimento scolastico, il disagio giovanile, le difficoltà genitoriali, l’inclusione sociale sono obiettivi che rimandano a “soggetti” e “contesti”diversi che necessitano di analisi, approcci e azioni di tipo speciale. E dunque anche risorse umane speciali per tali bisogni speciali e dunque formazione specifica: di tipo psicologico, pedagogico, sociale, giuridico,…con supporti professionali altri oltre quelli dell’insegnante o del contesto scolastico in senso stretto. Cosa che manca ed è mancata nel sistema scolastico italiano.
Nel corso del complesso processo della “crescita” complessiva di un individuo, gli elementi dell’universo scolastico si fondono con quelli dell’extra scolastico e i molti problemi della scuola, della scolarizzazione, dell’istruzione e della formazione diventano temi e problemi della società che istituisce e regola quelle istituzioni. Faccio il caso della mia città: ogni ragazzo disperso è un “piccolo mondo” che riassume e riflette i problemi interi della città che sono di ordine culturale, sociale, economico, psicologico, giuridico…E’ assolutamente inutile agire su uno solo di quei problemi pensando di risolverli tutti. E’ proprio la multidimensionalità del fenomeno che ne rende opaco il concetto e la “dispersione” diventa termine-contenitore per comprendere fenomeni di differente natura e problematiche che andrebbero distinte.
Più che di dispersione sarebbe meglio parlare di differenti dimensioni o livelli di dispersione, per distinguere:
– Le forme della dispersione nei percorsi scolastici, di tipo materiale, che riguardano gli studenti che rallentano o cambiano percorso nel sistema di istruzione e formazione (questo livello rimanda all’analisi dei flussi, vale a dire delle ripetenze, delle non re iscrizioni, dei trasferimenti, ritiri o passaggi degli studenti all’interno del sistema di istruzione);
– Le forme di dispersione dell’apprendimento e nel processo di istruzione scolastica (questo livello rimanda all’analisi dei debiti scolastici o dei giudizi di non sufficienza, dei tassi di bocciatura, dei livelli raggiunti nelle distinte competenze disciplinari o trasversali, di scuola o a carattere comparativo nazionale/internazionale, e quindi la qualità degli apprendimenti);
– Le forme di dispersione nell’integrazione e relazione sociale (questo livello riguarda l’analisi del disagio, devianza e disaffezione delle regole, contesti sociali e valori condivisi a scuola e nella società civile);
– Le forme di dispersione tra titoli di studio e competenze acquisite da un alto ed entrata nella vita professionale dall’altro (corrispondenza tra titoli e reclutamenti o contratti, ricaduta sociale degli investimenti nell’istruzione) .
Solo distinguendo i piani e le dimensioni della dispersione e analizzando tutti i livelli di interazione tra essi, è possibile progettare e attuare piani di intervento efficaci, proponendo la scuola, e tutte le istituzioni di istruzione e formazione , come punto di snodo insostituibile per la difesa del diritto allo studio di e all’istruzione di tutti (non uno di meno), in questo caso i “peggiori”, i primi ad essere esclusi/espulsi dal sistema d’istruzione così come è concepito. Concepire un sistema che non moltiplichi le diseguaglianze sociali ma viceversa offra gli strumenti opportuni (professionali e di risorse) agli operatori che vi lavorano per recuperare e appianare tali diseguaglianze. Istruire ad istruire allievi e formatori in un lavoro artigianale e potente che comprenda dentro di se una forte dose motivazionale in primis nei docenti, per poterla trasferire ai discenti con la consapevolezza che sono altri ambiti a dover essere “aggrediti” o “colpevolizzati” per ogni insuccesso scolastico.
In altre parole, la scuola, puntando sulla prevenzione e riduzione della dispersione scolastica, e tenendo conto delle diseguaglianze delle condizioni di partenza dei singoli studenti (dare di più a chi ha di meno), mira all’uguaglianza delle opportunità formative e del successo negli apprendimenti. Per ciascuno di loro. E se quindi la dispersione nella scuola rimanda alla dispersione “della” scuola tra le componenti formative (disgregate, poco motivate e supportate socialmente), occorre allargare la visuale affrontare le distinte dimensioni, che non sono è bene ripeterlo, scolastiche, ma extrascolastiche, in un’ottica di sistema che consideri le strette relazioni tra istituzioni scolastiche e società. Progetti dunque articolati e integrati nei contesti, nel rispetto della continuità educativa e della persistenza orizzontale nel territorio e verticale nella vita scolastica dell’allievo.
La scuola è di tutti, sì, ma non può essere pensata come se tutti siano uguali, perché i bisogni in partenza e all’ingresso sono diversi e speciali. Deve essere “diseguale” ma equa, per colmare le differenze e iniquità sociali. Non può essere ciecamente egualitaria. Occorre ripensare la scuola. Occorre individuare leve teoriche, risorse, principi organizzativi e di rete che sappiano garantire il raggiungimento per tutti gli studenti di uan consapevole formazione di comptenze, saperi e valori.
La scuola è un insieme e un’organizzazione complessa, dentro la quale occorre distinguere livelli e piani per l’analisi e per la programmazione efficiente di interventi efficaci. Parlare di dispersione scolastica significa parlare di scuola, di come è organizzata e vissuta da parte di studenti, maestri, insegnanti, famiglie e dunque della società intera. Un discorso sulla scuola implica un discorso sulla società intera, come un discorso sui dispersi di Palermo implica un discorso su Palermo, sulla città intera.
L’Unità 17.04.12