Si rifletta un momento su questo semplice elenco di paesi: Nuova Zelanda, Australia, Italia, Regno Unito, Portogallo, Israele, Stati Uniti, Turchia, Messico e Cile. Sono i dieci paesi con la peggiore diseguaglianza nella distribuzione del reddito, ordinati dal decimo al primo. I dati sono stati elaborati direttamente dall’Ocse e hanno tutti i crismi dell’ufficialità. Ci sono i paesi che siamo soliti ricondurre sotto l’etichetta di “capitalismo anglosassone”; ci sono alcuni paesi emergenti e in via di sviluppo. C’è il Portogallo e c’è la nostra Italia, sì il Belpaese (un tempo, forse).
Basta questo semplice fatto per spazzare via la narrazione da paese dei balocchi che sull’economia e la società italiana ci è stata propinata per anni e anni. In quell’elenco non c’è la Germania, non c’è la Francia; più in generale non ci sono i paesi del “capitalismo renano” né i paesi scandinavi.
Beninteso, nell’ultimo decennio – è l’Ocse stesso ad annotarlo – anche questi paesi, caratterizzati storicamente da bassi livelli di diseguaglianza, hanno sperimentato incrementi significativi: ma nessuno di loro è in quella non proprio lusinghiera top ten. Eppure, il tema fa fatica a scalare posizioni nell’agenda politica italiana; la speranza è che con il governo Monti e col cammino di riforme da esso intrapreso, di disuguaglianze si torni a parlare anche da noi per poi agire.
Nel farlo non si partirebbe da zero; fra le direzioni verso cui volgere lo sguardo per trovare l’ispirazione v’è certamente L’economia giusta, il bellissimo saggio che Edmondo Berselli scrisse negli ultimi mesi di vita (aprile 2010), che ora Einaudi ha ripubblicato con una prefazione di Romano Prodi da sempre fautore di un «capitalismo ben temperato» (il suo saggio col Mulino è del 1995).
In un tempo in cui di diseguaglianza, almeno in Italia, non parlava nessuno, Berselli scriveva: «È stata una tensione fortissima nella distribuzione del reddito a provocare la torsione che ha strappato con violenza inusitata norme e abitudini. Nella società fordista veniva considerato equo che il presidente o l’amministratore delegato di una grande impresa guadagnasse trenta volte lo stipendio di un usciere. Oggi, o soltanto fino a ieri, si considerava normale che il reddito del grande manager ammontasse da tre a quattrocento volte la retribuzione di un impiegato di basso livello».
Che dire invece della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza (ossia, dello stock di risparmio accumulato)? Anche di questo parla Berselli nel suo libro quando afferma: «In Italia, il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede il 44 per cento dell’intero ammontare di ricchezza netta».
È stato Salvatore Rossi, vicedirettore della Banca d’Italia, ad osservare – in una delle tre serate dedicate a Berselli di cui anche Europa ha parlato – che sotto questo secondo profilo (ricchezza anziché redditi) la situazione del nostro paese appare meno sperequata rispetto a tanti altri, grazie soprattutto alla diffusione della proprietà immobiliare.
Se Edmondo potesse aggiornare queste pagine del suo libro con i dati di fonte Bankitalia scriverebbe che «nel 2009 la ricchezza netta delle famiglie era pari a 8,2 volte il reddito disponibile». Ma si tratta di una ricchezza privata «altamente concentrata» perché il 10 per cento più ricco dei cittadini ne possiede quasi la metà, mentre la metà più povera (o meno ricca) dei cittadini possiede meno del 10 per cento della ricchezza immobiliare e finanziaria.
Un altro libro, al pari di quello di Berselli, tragicamente illuminante – Guasto è il mondo di Tony Judt (Laterza), uno straordinario intellettuale scomparso dopo una lunga malattia – mostra le impressionanti diseguaglianze del capitalismo americano, così come esse sono maturate nei 20-30 anni del Washington Consensus, che Berselli chiama anche l’«imbroglio liberista».
Judt cita nel suo libro, fra le altre, queste cifre: nel 2005, il 21,2 per cento del reddito nazionale americano derivava da appena l’1 per cento dei cittadini; il patrimonio della famiglia dei fondatori della Walmart, il colosso della grande distribuzione, pari a 90 miliardi di dollari, equivaleva sempre nel 2005 a quello del 40 per cento più povero della popolazione americana, cioè 120 milioni di persone.
Siamo proprio sicuri che l’Europa, e l’Italia, non abbiano nulla da dire e da proporre di fronte a tendenze di questa natura? Ecco la forza del libro di Berselli: avere riscoperto – primo fra tutti – che l’economia sociale di mercato di impronta tedesca può rappresentare il paradigma possibile di cui, oggi, c’è bisogno. Certo, un’economia sociale di mercato rivista alla luce dei tempi nuovi e vista in simbiosi – come Berselli non si stanca di ripetere le sue pagine – con la Dottrina sociale della Chiesa, un insieme di principî e valori che dalla Rerum Novarum del 1891 giunge ai giorni nostri.
«Cosa direbbe oggi, cosa scriverebbe Edmondo?», si sono chiesti sia Ilvo Diamanti che Ezio Mauro prendendo la parola nel corso della serata modenese di cui si diceva. È impossibile eguagliare – hanno detto entrambi – la sua maestria nell’unire economia e filosofia, storia e costume, grandi personaggi e persone che vivono una vita normale. Leggendo le fredde cifre dell’Ocse potrebbe però lasciarsi sfuggire, magari sorridendo, un: «Avete visto che avevo ragione: siamo un paese sempre più diseguale».
Il suo capolavoro sarebbe quello di far diventare un saggio come L’economia giusta una guida alle necessarie riforme del welfare, del mercato del lavoro, della scuola, della finanza – in una parola, del nostro modello di capitalismo – di cui l’Italia, più che gli altri grandi dell’Europa, ha disperatamente bisogno.
da Europa Quotidiano 17.04.12