Nella primavera 1978 le Brigate rosse sottoposero Aldo Moro a un interrogatorio che riguardò anche la strage di piazza Fontana del 1969 e quella di piazza della Loggia del maggio 1974. Come è noto, il memoriale del prigioniero è giunto a noi incompleto, ma su quegli anni egli formulò un giudizio chiaro utilizzando la categoria di “strategia della tensione”. Quel tempo fu «un periodo di autentica ed alta pericolosità con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente non permise». Moro espose i meccanismi e le finalità della strategia della tensione, impostata da servizi stranieri occidentali con propaggini operative in due paesi allora fascisti come la Grecia e la Spagna. Essa aveva potuto godere del contributo dei servizi italiani militari con «il ruolo (preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia», ossia dell’Ufficio Affari riservati diretto da Federico Umberto D’Amato.
Secondo il prigioniero lo scopo era stato quello di realizzare una serie di attentati attribuendoli alla sinistra per destabilizzare l’Italia e poi coprire i veri responsabili con appositi depistaggi: «La c. d. strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei binari della “normalità” dopo le vicende del ’68 ed il cosiddetto autunno caldo», anche se Moro trascurava il varo nel giugno 1972 del governo centrista Andreotti-Malagodi, dopo l’attentato di Peteano per cui è reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Secondo l’ostaggio i servizi segreti italiani non diedero vita a deviazioni occasionali, ma a un’opera sistematica di inquinamento per «bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere». Egli fece riferimento all’azione di “strateghi della tensione”, senza però offrirne un ritratto esplicito, e si espresse duramente nei riguardi della Democrazia cristiana: «Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti, mancò alla D. C. di allora ed ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico sia sul piano amministrativo un atteggiamento talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto». E ancora: «se vi furono settori del Partito immuni da ogni accusa (es. On. Salvi) vi furono però settori, ambienti, organi che non si collocarono di fronte a questo fenomeno con la necessaria limpidezza e fermezza».
L’attenzione di Moro si focalizzava su Giulio Andreotti, il quale aveva «mantenuto non pochi legami, militari e diplomatici, con gli Americani dal tempo in cui aveva lungamente gestito il Ministero della Difesa entro il 68». In particolare con la Cia, «tanto che poté essere informato di rapporti confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani». Moro ripeteva, per ben undici volte, il nome del giornalista neofascista Guido Giannettini, incriminato nel 1973 per la strage di piazza Fontana da cui sarà assolto, sottolineando l’importanza di un’intervista che Andreotti aveva concesso a Il Mondo nel giugno 1974, all’indomani della strage di Brescia, in cui aveva rivelato che Giannettini era in realtà un agente del Sid infiltrato in Ordine nuovo. È come se Moro avesse voluto alludere a una pregressa consapevolezza di Andreotti (“uomo abile e spregiudicato”) riguardo alle azioni messe in campo da quegli ambienti, da cui aveva deciso improvvisamente di prendere le distanze («un primo atto liberatorio fatto dall’On. Andreotti di ogni inquinamento del Sid, di una probabile risposta a qualche cosa di precedente, di un elemento di un intreccio certo più complicato»).
Tale ricostruzione sarà confermata nell’agosto 2000 da Gianadelio Maletti, il responsabile dell’ufficio D del Sid dal 1971 al 1975, condannato per avere agevolato la fuga di Giannettini all’estero, il quale, in un’intervista a Daniele Mastrogiacomo per questo giornale, dichiarò «La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell’estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l’arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione».
In che modo? «Lasciando fare», e Andreotti «era molto interessato. Soprattutto del terrorismo di destra e dei tentativi di golpe in Italia».
È significativo notare che Pier Paolo Pasolini nel novembre 1974, ossia pochi mesi dopo la strage di Brescia e l’intervista dell’allora ministro della Difesa Andreotti che scaricava l’agente dei servizi militari Giannettini, scrisse sul Corriere della Sera l’articolo Cos’è questo golpe? Io so, in cui individuava l’esistenza di due diverse fasi della strategia della tensione: la prima, con la strage di piazza Fontana, anticomunista, funzionale a chiudere con l’esperienza dei governi di centro-sinistra e ad arginare l’ascesa del Pci; la seconda, con le bombe di Brescia, antifascista, ossia utilizzata per bruciare quanti ancora erano impegnati a creare le condizioni di un golpe nero e di una soluzione militare in Italia, esattamente come fatto da Andreotti con Giannettini: «Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista)». Forse per sempre senza nome. Così scriveva un anno prima di essere ucciso il poeta che ebbe l’ardire di farsi storico del suo presente: l’ultima profezia, come ribadisce la sentenza dell’altro ieri sulla strage di Brescia.
La Repubblica 16.04.12