Ha ragione il Capo dello Stato quando osserva che il continuo richiamo alla crescita, fatto troppo spesso con la sola enunciazione della parola, la trasforma in una sorta di araba fenice, che nessuno sa come sia e che il governo avrebbe però il torto di non catturare. Sia chiaro, il problema della crescita esiste e su questo giornale siamo stati in diversi a sollevarlo più volte. Ma quando se ne parla, è bene essere consapevoli di chi e di che cosa può fare al riguardo, giacché ci sono dei limiti oggettivi a ciò che può essere fatto dal nostro governo (come dal governo di ogni altro Stato dell’eurozona), mentre c’è molto, anzi moltissimo che può e deve essere fatto a livello europeo.
Tocca di sicuro ai governi nazionali cimentarsi con le cosiddette riforme di struttura – le pensioni, le liberalizzazioni, il mercato del lavoro- e il nostro lo ha fatto da subito. Ma le riforme di strutture producono i loro effetti a una qualche distanza di tempo e ad un’economia in affanno non possono dare né le concrete prospettive di investimento su cui formare le aspettative future, né le risorse di cui può aver bisogno per non fermarsi nell’immediato.
Servono qui altre cose e anche su queste del resto il governo ha cominciato a lavorare: serve pagare i debiti dello Stato verso le imprese, magari attraverso un factoring con le banche che anticipano i soldi e diventano loro creditrici dello Stato, serve indurre le stesse banche a un maggiore equilibrio fra l’acquisto dei titoli pubblici e il credito alle imprese, serve avviare gli investimenti pubblici, nazionali e locali, che risultano finanziati e cantierabili, serve rafforzare la competitività esterna di chi esporta.
Sono le bombole di ossigeno di cui avevo parlato io stesso due settimane fa ed è ragionevole aspettarsi che il governo le fornisca al più presto. Ma sarebbe illusorio pensare che potremmo uscire grazie a ciò da una recessione che ha investito l’intera eurozona e che solo a quel livello può essere efficacemente affrontata, in conformità del resto alla diagnosi della crisi sempre più condivisa fra gli economisti.
Come hanno scritto in questi giorni Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera e Martin Wolf sul Financial Times, l’eurozona non ha portato alla convergenza delle economie che ne fanno parte, ha portato piuttosto alla convergenza di grossi afflussi di capitale dall’Europa più benestante alle periferie e ha alimentato così abnormi bolle speculative e forti disavanzi delle bilance commerciali. Quando l’euforia è finita, ci sono rimasti gravi squilibri macroeconomici ed è ad essi, a questo punto, che dobbiamo porre rimedio, pena – come ha scritto cinicamente ma lucidamente l’Economist – la disintegrazione dell’euro.
È vero che la situazione dell’Italia è in parte diversa da quella dei paesi più periferici, ma è un fatto che il vagone italiano viaggia con lo stesso treno degli altri e risente delle sue complessive vicende. E se il mondo guarda con preoccupazione al treno europeo perché nell’economia globale è quello che viaggia più lentamente, tocca all’Europa, che agli Stati ha affidato la pulizia dei vagoni, aumentare la velocità complessiva ed evitare così che il treno si fermi e vada in pezzi.
Ancor prima del Fiscal Compact e di sicuro dopo di esso, la linea prescelta è stata quella della più severa austerità nei bilanci nazionali. Se è difficile dar torto a chi dice che per crescere occorrono risorse da destinare agli investimenti, è altrettanto difficile aspettarsi che tali risorse possano venire da bilanci nazionali, sui quali i mercati gettano i loro strali non appena fuoriescono dai binari della promessa austerità. Tocca dunque all’Europa, dicevo, e l’Europa può farlo, sciogliendo alcuni nodi che dipendono soltanto dalla volontà e dalla lungimiranza politica di coloro che la guidano.
In sede europea vi sono progetti per infrastrutture, reti, comunicazioni, circolazione di innovazioni, che possono migliorare nel tempo le nostre economie e cambiare da subito le aspettative di investitori e operatori.
Ebbene, sono progetti paralizzati, perché non ricevono i finanziamenti, che pure sul mercato potrebbero trovare. Pochi sanno che le nostre banche e le nostre assicurazioni, a causa delle nuove regole prudenziali introdotte da Basilea 3 e dalla direttiva Solvency 2 allo scopo di rendere i loro asset facilmente liquidabili in caso di bisogno, si tengono alla larga dagli investimenti di lungo periodo, che sono divenuti per loro penalizzanti perché molto costosi. Quale sia il senso di ciò in particolare per le assicurazioni lo sa solo Dio, certo si è che l’effetto sui progetti prima indicati è disarmante, anche perché, a questo punto, se ne tengono alla larga gli stessi fondi pensione e gli altri grandi investitori istituzionali.
Il rimedio ci sarebbe ed è costituito dai project bonds, titoli che potrebbero essere emessi dalla banca Europea degli Investimenti, senza gravare né sui debiti nazionali, né sul debito europeo. I project bonds avrebbero la tripla A, la potrebbero estendere, garantendoli, ai debiti già emessi a favore dei medesimi progetti e darebbero in tal modo un immediato e formidabile impulso alla loro credibilità e alla loro concreta realizzazione. Lo propone l’Eurofi, il centro di ricerca presieduto da Jacques de Larosière, che certo non è uno sconsiderato, come non lo è Franco Bassanini, che da tempo lo predica in Italia. Perché la cosa non viene portata, il più rapidamente possibile, al tavolo delle decisioni europee?
C’è poi la questione del nuovo bilancio dell’Unione, che certo non dispone di enormi risorse, ma potrebbe aumentarle con la tassa sulle transazioni finanziarie e potrebbe comunque orientarle a beneficio della crescita anziché delle tradizionali e obsolete priorità. Si legga il saggio appena scritto da John Peet per il Centre for European Reform. Si apprende che la politica agricola continua a primeggiare fra le spese comuni arrivando al 36% del totale e che i suoi pagamenti vanno per quattro quinti a un quarto degli agricoltori europei, cioè i più grandi, inclusa la famiglia reale britannica con mezzo milione di euro l’anno. La Commissione, sia pure con timidezza superiore alle necessità, qualche innovazione l’ha proposta per il periodo 2014-2010. Come si comporteranno i governi al tavolo del Consiglio Europeo?
Insomma, questa non è l’araba fenice, queste sono misure concrete per la crescita che abbiamo il diritto di pretendere non dal solo Mario Monti, ma da quanti insieme concorrono alle politiche e alle scelte dell’Unione. Fu proprio Monti a dirmi una volta che pensava di coinvolgere anche i leaders dei partiti nazionali, componenti autorevoli dei partiti europei, nell’azione necessaria ad influire su quelle scelte. Martedì avrà una buona occasione per farlo.
Il Sole 24 Ore 15.04.12