La fine del compromesso tra capitalismo e democrazia ha aperto la strada a un liberismo in cui il mercato è regista e la politica va tenuta nell’angolo. Per questo occorre rilanciare la sfida del governo democratico e della «ragione pubblica». Le ragioni specifiche del declino della sinistra italiana si sono incontrate o hanno coinciso con l’emergere prepotente di un fattore di mutamento ancora più profondo e che attraversa tutte le democrazie consolidate dell’Occidente. Questo mutamento può essere rappresentato come la fine del compromesso tra capitalismo e democrazia in seguito al mutamento del capitalismo da industriale a finanziario. La combinazione di capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha accettato istituzioni politiche in cui le decisioni prese a maggioranza erano l’aggregato di voti di uguale peso.
Il keynesianismo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché, invece di assistere i poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precendenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione (…).
L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione e eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche dal lavoro ai beni sociali e primari ai sevizi fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole (…). A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l’aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegni a «mai dire mai». Un altro cambiamento, forse meno indolore seppure non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti: ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione dei partiti in macchine elettorali e la concentranzione dei mezzi di informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della democrazia pur senza sospenderla. La democrazia che aveva siglato il compromesso con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha questo significato.
Si è detto che questo articolo aveva comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si è detto, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica (…)
E vengo così alla terza e ultima parte della mia riflessione, che verte sul bisogno di politica e, per quanto riguarda il nostro Paese, sulla necessità di uscire prima possibile dal dopo Berlusconi, di chiudere quella che è stata chiamata la fase del governo di emergenza prima di tutto per l’inadeguatezza del governo democraticamente eletto nel 2008 e poi perché come una guerra la crisi finanziaria ed economica ha chiesto e chiede ai governi di prendere decisioni che sono così impopolari che nessun partito può perseguirle pena la perdita dei consensi elettorali. La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza, non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt (il quale del resto sta godendo di grande successo anche negli Stati Uniti dove si invocano esecutivi forti e meno condizionati dal Congresso, luogo di mediazioni e compromessi che rendono le decisioni stentate, lente e deboli).
In Italia noi abbiamo un governo dell’emergenza. Quello di Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l’impotenza della deliberazione collettiva a decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli Stati democratici, la politica è stata messa all’angolo. Il fatto poi che l’Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall’angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee (…).
Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i Paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica (…).
La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come Paese (questa ricerca è già cominciata, come mostra la recente riunione parigina delle maggiori fondazioni politiche della sinistra europea). Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda «chi» vota, ma «dove» si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, per riprendere il filo del secondo argomento qui sviluppato, come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità?
La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun Paese da solo può pensare di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L’Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il Vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l’esigenza di una politica sovranazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli Stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: è possibile un’unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela? (…).
Un’indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall’esperienza di questi mesi di governo di emergenza nel nostro Paese. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso nel processo decisionale.
Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l’assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita. La rinascita della politica non sarà probabilmente un fatto repentino, né avverrà dall’oggi al domani. Il declino della partecipazione al voto che tutti i sondaggi stanno misurando, in Italia come nel resto dei Paesi occidentali, è segno profondo di quanto grande sia la distanza tra il bisogno di risposte politiche da parte dei cittadini e la volontà o la capacità dei soggetti politici che dovrebbero darle. La rinascita della politica coincide quindi con la ricostituzione del Partito Democratico intorno a un progetto politico che sia consapevole di questi mutamenti che sono epocali, non solamente a livello nazionale, e soprattutto senza la certezza che si possano governare con gli strumenti con i quali sono stati finora governati.
L’Unità 15.04.12