Anche se la stragrande maggioranza degli italiani non lo immagina neppure, Rosi Mauro è la quarta carica dello Stato. In caso di impedimento di Napolitano, l’Italia sarebbe rappresentata dal presidente del Senato, Schifani; in caso di impedimento anche di Schifani, toccherebbe al presidente della Camera, Fini; ma se a quest’ultimo venisse il colpo della strega, la Patria avrebbe la forma e la figura della signora Rosa Angela Mauro detta Rosi.
Alla quale ci sentiamo di rivolgere un cortese ma fermo invito: si dimetta. Lasci quella carica: fosse di partito, non ci permetteremmo. Ma è la vicepresidenza del Senato della Repubblica: rappresenta tutti noi e anche qualche nostro illustre antenato.
Lei obietterà di non essere indagata. Ma non tutto si misura con il codice penale. Ci sono comportamenti sconvenienti che non sono reati, ma restano sconvenienti. Gentile signora: l’hanno capito anche due persone cui lei dovrebbe voler bene, Umberto Bossi e suo figlio Renzo. Anche loro non sono indagati. Ma quel che è già emerso dall’inchiesta sul conto di entrambi è bastato a indignare non dico i nemici della Lega, ma i suoi elettori e militanti, che si sentono traditi e chiedono pulizia. Per questo Bossi senior e Bossi junior se ne sono andati. Il primo dalla guida del partito che ha creato dal nulla; il secondo dalla carica di consigliere regionale, che era il suo non disprezzabile posto fisso in tempo di crisi.
Lei in questi giorni ha detto che a dimettersi non ci pensa neppure. Strano, questo attaccamento a Roma ladrona e alle istituzioni di un Paese che nelle previsioni del tempo del giornale del suo partito, «La Padania», figura all’estero. Perfino Calderoli le ha chiesto di lasciare: Calderoli, quello che era con lei sul palco di Venezia a insultare i giornalisti che avevano osato scrivere di divisioni all’interno della Lega. «I giornalisti scrivono un sacco di c…te», urlò lei, signora, che era già vicepresidente del Senato. Oggi si vede che forse c…te lo erano per difetto, nel senso che neppure noi pennivendoli potevamo immaginare un partito così tanto diviso: con segretarie di fiducia che scaricano il capo e bodyguard che filmano il Trota mentre intasca i soldi della cassa comune.
Ieri Umberto Bossi, quando balbettava qualche mezza frase sulle dimissioni di Renzo, non sembrava neanche un leader politico in difficoltà ma solo un vecchio padre sofferente. Suscitava compassione, così come in un certo senso la suscita anche suo figlio, destinato ora a pagare, con un marchio a vita, un prezzo superiore alle sue effettive responsabilità. La loro è una fine ingloriosa: ma le dimissioni di entrambi bastano a fermare Maramaldo. Le sue, signora, sarebbero semplicemente un atto dovuto.
La Stampa 10.04.12
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