È finita un´epoca. Ripeterlo, come un mantra, serve a evitare di appiattirsi sulla cronaca (giudiziaria o di colore). Che ogni giorno riserva novità. Ieri le dimissioni del figlio del Capo – Renzo Bossi – dal Consiglio regionale della Lombardia. Oggi chissà. Ma gli scandali che hanno travolto il milieu familiare – forse meglio: familista – di Bossi, insieme alla leadership della Lega (in parte coincidenti), rammentano quanto già si conosceva. Che la Lega è divenuta, da tempo, un partito come gli altri. Per alcuni versi: più esposto degli altri alle logiche di sotto-governo. Perché ha occupato una catena infinita di posti di potere, centrale e locale, in tempi molto rapidi. E la sua classe politica è stata reclutata in base a criteri di fedeltà ai leader, non di coerenza con la “missione” del partito. Tanto meno di qualità. Tuttavia la Lega non è – o almeno: non era – un partito come gli altri. È il soggetto politico che ha rovesciato la “Questione nazionale”, storicamente identificata con il Mezzogiorno – l´area dello “sviluppo dipendente”. Ha, invece, interpretato la cosiddetta “Questione Settentrionale”. Espressa dalle province pedemontane del Lombardo-Veneto. Protagoniste, dopo gli anni Settanta, della crescita impetuosa della piccola e media impresa. La Lega ne è divenuta portabandiera. Ha interpretato la domanda di rappresentanza dei lavoratori autonomi e dipendenti che popolano questo territorio di piccole città e di piccole aziende. La Pedemontania.
La crisi della Lega è avvenuta all´indomani delle dimissioni del Cavaliere. Non a caso. Perché Berlusconi ha rappresentato l´altra faccia della “Questione Settentrionale”. Milano e il capitalismo dei “beni immateriali” (per citare Arnaldo Bagnasco): media, comunicazione, assicurazioni, finanza, servizi. Naturalmente complementare alla politica, per ragioni di “mercato”, spazi, concessioni. Due Nord alternativi al capitalismo metropolitano della grande produzione di massa. Alla Fiat, insediata a Torino e alleata con Roma. Milano e la Pedemontania erano destinati a incontrarsi. A stabilire un rapporto di reciproco interesse, per quanto concorrenziale. Com´è avvenuto. Dal 1994 fino a ieri. Con alterne vicende. La vittoria e l´esperienza di governo, insieme, nel 1994 e, dopo pochi mesi, la rottura. Berlusconi all´opposizione e la Lega verso la secessione. In caduta: dal 10% nel 1996 a poco più del 4% nel 1999. Destinati, dunque, a tornare insieme. Per vincere, nel 2001, e governare per 10 anni, quasi ininterrotti. Insieme. Berlusconi e Bossi, l´Imprenditore e il Territorio. Milano e la Pedemontania: a Roma. Per cambiare l´Italia. Per riformarla a misura del loro popolo, dei loro elettori. Che chiedevano – e chiedono – di essere “liberati”: dalle tasse, dalla burocrazia, dal peso del pubblico, dai privilegi della classe politica – “romana” e “meridionale”. Dal centralismo. Nulla di tutto ciò si è avverato. La pressione fiscale è cresciuta. Il federalismo: approvato a parole. Mai tradotto in regole e strutture amministrative efficienti. I privilegi politici: mantenuti e moltiplicati. Insieme alla corruzione. Infine, la crisi globale – a lungo negata dal governo del Nord – ha colpito pesantemente l´Italia. Ma anche il Nord. Il piccolo Nord, il Nord dei piccoli: punteggiato dai suicidi di artigiani che non ce la fanno. Il Nord di Berlusconi, dei media e dei servizi: alla ricerca crescente di protezione politica. (Il leader: impegnato a proteggere se stesso e le proprie imprese.) Così la Lega, da Sindacato del Nord, si è trasformata in un partito come gli altri. Centralizzato e personalizzato. Senza più guida e senza controlli, dopo la malattia del Capo. In balia di colonnelli, caporali e parenti. Mentre il Pdl, ultima versione del partito personale di Berlusconi, si è meridionalizzato. Il declino del Capo l´ha lasciato senza identità e senza missione.
Così è s-finita l´avventura dei partiti del Nord alla conquista di Roma. Anche se la decomposizione della leadership leghista non significa, necessariamente, scomparsa della base elettorale. Fino a ieri era stimata intorno al 10%. E il suo elettorato più stabile e fedele, circa il 4%, dagli anni Novanta ad oggi appare insensibile a ogni rovescio. Né, d´altronde, le dimissioni di Berlusconi significano la scomparsa del suo elettorato. Quel 25% di elettori che l´hanno votato per oltre 15 anni dove e a chi si rivolgerà?
Il Centrosinistra, che pure ha governato per circa 7 anni, appare, da sempre, attraversato da profonde divisioni interne. In grado di competere, nel Nord, alle elezioni amministrative. Molto meno alle elezioni politiche. Tuttavia, la rappresentanza dei partiti del Nord oggi si presenta molto indebolita.
Così si chiude l´epoca del Grande Imprenditore e del Piccolo Nord. Senza riforme memorabili. Quelle promesse di vent´anni fa ce le siamo dimenticate. Questo “Paese eternamente provvisorio” (per citare Berselli) oggi è provvisoriamente affidato a un Grande Tecnico. Nominato dai partiti (maggiori) per garantire i mercati internazionali e l´opinione pubblica nazionale. Contro se stessi. Cioè: contro la minaccia dei partiti.
Tuttavia, è impossibile immaginare un futuro per questo Paese, senza riforme profonde. In grado non solo di controllare i “costi” della politica. Ma di ridisegnare lo Stato e le istituzioni. E di ricostruire la Politica e i Partiti. Perché senza Politica e senza Partiti non è possibile riformare lo Stato e le Istituzioni. Inutile illudersi che Monti e i suoi Tecnici (perlopiù del Nord) ce la possano fare, da soli. Basti pensare alle difficoltà incontrate nel modificare l´articolo 18. Figurarsi cosa avverrebbe se si affrontasse una revisione costituzionale sostanziale. Non è un caso che Monti continui a citare i sondaggi – per legittimarsi. Come un Berlusconi qualsiasi. Ma la democrazia rappresentativa non può fondarsi sul verdetto dei sondaggi. Sostituendo il corpo elettorale con un campione di persone intervistate dagli istituti demoscopici.
Così, la fine dell´epoca di Berlusconi e di Bossi non risolve i problemi di questa “Repubblica provvisoria”. Li lascia sospesi. La “questione settentrionale”: senza rappresentanza. E, prima ancora, la “questione nazionale”. In attesa di riforme che il governo del Nord non è riuscito a fare. E che il governo dei Tecnici non è in grado di realizzare. Questo Parlamento non glielo permetterebbe. Appartiene al passato. Bisogna, per questo, attendere nuove elezioni. Un nuovo Parlamento. E, a mio avviso, una nuova “Assemblea costituente”.
La Repubblica 10.04.12