In piazza Sallustio, quella che fu invasa dalle carriole, c’è talmente tanto silenzio che si sentono le lucertole strisciare nell’erba e i piccioni tubare fra le macerie. Una ventina di metri più indietro, oltre alle camionette dei militari che sorvegliano la zona rossa, si allunga il Corso: quello dove tre anni fa s’andava a fare shopping, e dove oggi alzano le serrande solo i pub per il giovedì universitario. È il 6 aprile 2012, sono passati tre anni dal terremoto che l’ha devastata, e L’Aquila è ferma nel tempo. Transenne che punteggiano facciate fatiscenti, insegne di negozi che non esistono più, porte spalancate sul nulla: più che una città, pare un set abbandonato all’incuria del tempo.
In Piazza Duomo, dove il sabato c’era il mercato, i cani passeggiano pigri. Alcuni sono sdraiati sotto alle transenne dei lavori in corso. Altri giocano con i bambini: animali e bimbi sono le uniche creature, nel raggio di un paio di chilometri, a muoversi tra le macerie con serena indifferenza. “Io lo porto qui perchè mio marito insiste, ma non mi piace per niente guardare la città com’è ridotta” dice M., mamma del piccolo che sta rincorrendo i piccioni intorno alla statua dedicata ai caduti del terremoto. La vita quotidiana per i genitori de L’Aquila, dopo la catastrofe, è diventata più difficile di prima.
“Non sappiamo dove portare i nostri figli”, dice T., altra mamma e insegnante. “Spazi verdi non ce ne sono e qui in centro col passeggino è impossibile camminare: ci sono le buche, le macerie a terra, è pericoloso”. Le scuole del centro, chiuse perchè inagibili, sono state riaperte in periferia: “E il risultato è che nostra figlia per fare educazione fisica deve prendere un autobus”, spiega una coppia la cui casa si è letteralmente disintegrata nel sisma, “perchè il nucleo scolastico che frequenta contiene solo la prima, la seconda e la terza elementare: il resto delle classi, e la palestra, è finito in un altro quartiere”.
Storie di (stra)ordinaria follia urbana, in una città in cui il cimitero è diventato più frequentato del Corso: “Hanno riaperto le Poste vicino al campo santo, e pure gli uffici pubblici”, si lamenta una signora anziana, che per arrivarci deve affrontare un viaggio di 30 minuti in autobus, “e se vuoi mandare una raccomandata di pomeriggio devi attraversare mezza città”.
In centro, la gente era abituata a muoversi a piedi: ora, senza macchina, non si va da nessuna parte. “Il giovedì ti facevi la serata da un pub all’altro, bevevi ma non facevi danni perchè tanto eri a piedi. Ora tocca prendere l’auto perchè un sacco di posti hanno chiuso in centro e riaperto fuori. E nessuno resta più fino alle quattro”. Lo dice S., universitario, che la scorsa estate è stato vittima della “strage di patenti” messa a segno dalla polizia municipale de L’Aquila.
Con la sua ragazza si sta rollando una canna in Piazza 9 Martiri, sullo stesso muretto su cui altri adolescenti hanno graffitato pensieri, amori e proclami di sfida al terremoto (“Sara & Anto torneranno a sedersi, qui, sulla loro panchina in piazzetta”, dice una scritta. Ma la panchina ancora non c’è). L’erba non manca, evidentemente. Le tabaccherie invece sì: “Nelle 19 new town non c’è una sola tabaccheria, ma le sembra possibile?”, dice G. che di professione fa il medico e si occupa proprio di polmoni. “Me lo dicono i miei pazienti”, dice per giustificarsi…
In centro, in compenso, manca tutto il resto. “Alcuni pub hanno riaperto, noi per esempio siamo tornati da un anno”, fa la proprietaria di una tavola calda vicina alla piazza della Fontana Luminosa, “d’inverno campiamo con gli operai, con la bella stagione arriva qualche passante. Ma la polizia non è che faccia tanti controlli, e la notte in centro non è sicura”. Sarà anche per questo che sui muri squarciati e sulle vetrine annerite proliferano, tra gli altri, i manifesti di un corso di autodifesa per donne: “Ti senti preparata, ti senti sicura”.
Molti negozi, ancora agibili, sono stati dati in affitto. Altri hanno cambiato sede, e non si contano in città i cartelli che avvisano “Ci siamo trasferiti”, “Nuova sede in”, “Di nuovo aperti ma”. Tanti hanno abbandonato il centro. E hanno rialzato la saracinesca all’interno di centri commerciali come L’Aquilone, dove sono trasmigrate anche le bancarelle e gli ambulanti del mercato. “Ti incontri là, alle casse, con gente che eri abituato a salutare sulle panchine”, dice un signore con il cane al guinzaglio, “e ti sembra di vivere in una specie di fiction: riconosci una faccia, ma non sai più dire chi sia perchè ti manca il contesto”.
La vita è cambiata per tutti. “Per chi non ha più la casa, ma anche per chi ce l’ha”, racconta Betti Leone, capolista Sel a sostegno del sindaco Massimo Cialente alle prossime elezioni, “perchè tutti abbiamo perso una cosa: la città. È cambiato il ritmo della vita, sono cambiate le relazioni familiari e le abitudini. Gli anziani non sono più autonomi. I tempi per gli spostamenti sono aumentati: per andare in farmacia, per comprare un vestito o fare la spesa, puoi impiegare anche 40 minuti. E il centro di notte è un luogo artefatto, triste, senza alcun controllo sociale”.
Cambiano le piccole abitudini: le cene a casa, se abiti in un prefabbricato, non te le puoi permettere per ragioni di spazio. Meglio una pizzeria, di quelle che si sono moltiplicate nell’enorme periferia che è diventata L’Aquila, o un bel tendone con gonfiabili in affitto per le feste dei bambini. Al cinema si rinuncia, come ricorda la sala Massimo che all’ingresso del centro storico sfoggia la mesta locandina ingiallita de Gli amici del bar Margherita di Pupi Avati, ultimo film proiettato. Era venerdì 3 aprile 2009. Tre giorni dopo, il terremoto.
“Dici: hai perso la casa, hai perso il lavoro, ma perchè non te ne vai?”, si chiede B. È sopravvissuta con la sua bambina al crollo della casa, salvata dal marito che le ha dissepolte, e oggi vive in un prefabbricato. Ma continua a pagare le rate del mutuo “di quattro mura, perchè non mi è rimasto altro. Dici: perchè non te ne vai? Perchè questa è la mia vita. Qui c’è la mia storia. Il crollo fa parte di quello che siamo diventati. Torno qui una volta all’anno, chiedo ai vigili le chiavi del cancello e porto mia figlia a guardare la casa. Per lei è come una favola, per me è questione di sopravvivenza. Confino la rabbia in un angolino del fegato e continuo a sperare che i nostri figli un giorno abbiano una città”.
dalla rivista Rolling Stone