Il futuro della Lega sarà nelle mani dei suoi elettori. È ovvio. Ci si può spingere più in là: è nelle mani di Dio. Non sembra infatti che il triumvirato in corso Maroni – Calderoli – Dal Lago sia in grado di esprimere svolte radicali: non c’è la secessione alle porte, non c’è la Padania e non compare neppure l’eventualità di una colorita scampagnata lungo le rive del Po. Anche i riti consolidati, tipo il giuramento di Pontida, perdono smalto. Dopo vent’anni, dopo aver appoggiato tutte le leggi possibili salva-Berlusconi, la Lega non ha conquistato neppure uno straccio di federalismo e non c’è più nulla su cui giurare e su cui sperare. In quel bilancio tra lo zero e lo sconforto suona la campana a morto. La resa si conta così, prima che di fronte a presunti i traffici illeciti dal cerchio magico ai figlioli. Il più politico dei leghisti, dopo il Senatur naturalmente, Roberto Maroni, osannato soltanto tre mesi fa, è stato salutato come «Giuda» e si può immaginare la violenza dell’insulto per i leghisti, che considerano Umberto Bossi il loro unico, insuperabile profeta. Tradire Bossi, ecco il delitto peggiore. Maroni cercherà, se gli Lega nell’alveo della normalità. Ma a quel punto l’appeal leghista rischierà di sfumare. Si apre comunque una nuova fase politica. Dopo Berlusconi, Bossi. Si può ricominciare ignorando la Lega? Cioè i suoi elettori, la sua base popolare? Credo di no. E non perché per far voti si possa riprendere a modello un partito localista. Magari ci ripenseranno i veneti, che una lunga tradizione in quel senso sotto gli stendardi del leone di San Marco la possono vantare: sono arrivati loro prima di Bossi. Ma il problema è che l’Italia, di fronte all’Europa, ha bisogno d’altro.
Soprattutto quando le strade non sono lastricate d’oro, il Pil cala, i disoccupati aumentano, le tasse infieriscono, le pensioni diventano la chimera per generazioni e generazioni. È la recessione, e rifare un partito in tempi di recessione è un’impresa. Se qualcuno ha in testa di risollevare lo spirito della Lega deve tener conto di un disegno politico che si è ormai esaurito, visto che la ristrutturazione della produzione nel Nord Italia è avvenuta per conto suo, senza che vi potesse metter mano qualche stratega ministeriale del Carroccio. E quel popolo di produttori minimi che si scagliava contro Roma ladrona e contro l’ottusa burocrazia si è assai indebolito. La fedeltà alla Lega
non ha pagato. Il mondo, anche al Nord, è sempre più conteso tra ricchi e poveri, le aziende chiudono, i ragazzi diventano lavoratori precari, i padri passano anni di cassa integrazione. Che
cosa può significare raccogliere l’eredità della Lega? Tornare alla
secessione e alla Padania? La tentazione del partito del Nord seduce ancora qualcuno?La Lega ha illuso. Dicono che si sia radicata nel territorio. È vero. Ma la delusione (insieme con il sorgere prepotente di una questione morale, come finora quelli del Carroccio avevano sempre fatto finta di non vedere, malgrado la tangente Enimont, le speculazioni immobiliari, la Tanzania…) può spazzar via in un amen sezioni e pure i gazebi bossiani. Così le buone amministrazioni locali poco potrebbero contare per la tenuta
generale di un partito, in tempi in cui è più facile abbandonare una bandiera, senza sogni e senza ideologie di mezzo. In tempi in cui si va a caccia soprattutto di liste civiche (Verona insegna) e
l’identità si frantuma. Sul piatto, in Padania come in Italia, resta la crisi, resta una rotta negativa che non si sa quando si invertirà. Di fronte a un orizzonte fermo e oscuro, piuttosto che immaginare il partito del Nord, per parlare a quel popolo leghista si dovrebbe coglierne la sofferenza comune e usare un linguaggio che rimettesse al centro di tutto il lavoro. Che rimettesse al centro la produzione, il commercio, l’innovazione, l’intelligenza dei nostri produttori, quanto di meglio un’Italia volonterosa e coraggiosa in altre stagioni non aveva esitato a mostrare. Dovrebbe, di fronte a un elettorato che s’era convinton della bontà di una idea balorda e arretrata come la secessione, ricomparire uno Stato forte, capace ancora di programmare e
di investire, di riprendere una politica economica che stimolasse
davvero la produzione industriale, capace di correggere
idiozie burocratiche, di sveltire i processi, di accelerare i pagamenti, di razionalizzare ferrovie.
Occorre il realismo delle scelte politiche, occorre la concretezza della azioni amministrative: si cominci a proporre una riforma del sistema bancario, si guardi ai patrimoni delle fondazioni bancarie, si trovino così i soldi per rifondare lo Stato imprenditore e si riprenda la via dell’economia mista. Ricostruendo quel canovaccio di impresa, scuola, formazione, innovazione, welfare e di speranza dentro il quale il Nord possa riprendere, in un Paese che cresce, quel ruolo di traino che ha sempre avuto nel passato. Molto prima che se ne accorgesse Bossi.
L’Unità 07.04.12
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“Maroni che entra papa in conclave…”, di Francesco Lo Sardo
Per Bobo non è scontata la conquista del trono: finora solo tattica e zero progetto
«Iettatori fottetevi tutti, La Grande Lega è tornata più forte di prima. Padania Libera ». Padania libera? Se il buongiorno si vede dal mattino, non pare che Roberto Maroni parta col piede giusto nella sua sgambata per la conquista del trono, dopo la caduta del re Bossi, trascinato a fondo dal tragicomico tonfo della corte del Cerchio magico. A dispetto di chi ne dà già per scontata l’elezione a “pontefice verde in autunno (ammesso che il congresso, dopo dieci anni di “no” di Bossi che ne ha impedito la celebrazione si terrà davvero), con l’aria di batosta elettorale che tira per la Lega in Lombardia mai come per il lumbard Maroni vale il vecchio detto: «Chi entra papa in conclave ne esce cardinale».
Troppe variabili, di qui ai prossimi mesi: in particolare l’insofferenza alla condizione di subordinazione, ormai non più giustificata dai numeri, nei confronti della centrale lombarda di via Bellerio che cresce tra i leghisti veneti: quelli diventati primo partito in regione, quelli che tengono su la Lega a livello nazionale, quelli che portano acqua al mulino mentre altri si mettono il pennacchio. Una dinamica, questa, che anche per effetto delle amministrative potrebbe travolgere gli schemi di gioco studiati a tavolino da Maroni, finora apertamente sostenuto per la leadership del Carroccio da quel Flavio Tosi in ascesa che ha già in tasca l’elezione a capo della Lega veneta al congresso regionale che si terrà a giugno, dopo la sua marcia annunciata come trionfale sulla città di Verona.
Ma questa, prima tra numerose altre possibili nefaste incognite, sarebbe poca cosa se non si sommasse al vero punto debole di Bobo: l’assenza di un chiaro disegno strategico di progetto di una Lega “maroniana” per il dopo-Bossi. Da mesi, a partire dalle comunali di Milano del giugno scorso, da quando Bobo – tra esitazioni e reticenze, a differenza di Tosi – s’è messo ad agitare l’ascia di guerra contro i suoi avversari interni non c’è traccia di un progetto maroniano, se non quello di azzerare la banda del Cerchio magico a livello centrale e periferico e accelerare la successione a Bossi. Se in Veneto la Lega accentua il makeup di partito di governo e cambia toni, sventola il tricolore e inneggia agli alpini guardando oltre i confini di partito, il grido “Padania Libera” di Maroni è un sudario steso su un vuoto di contenuti offerto a una dolente platea di quadri e militanti in nome del nostalgismo e del ritorno agli antichi fasti della Lega. Una Lega così, per restare perennemente all’opposizione del governo e senza alleati a livello nazionale? Una Lega fuori e contro l’area della responsabilità dei partiti impegnati, forse anche dopo il voto 2013, in un’intesa d’emergenza anti-crisi? Forse sì.
Forse questo Maroni minimal è l’unico Maroni possibile. Ma questo cinico calcolo, che è il più vistoso limite dell’attuale Maroni, potrebbe essergli fatale. Già il triumvirato, anziché giovargli, gli riduce i margini di manovra, lo impiglia e lo rischiaccia sul vecchio avversario Calderoli. La ricerca di una mediazione con Bossi e con le altre correnti, (dai resti dei cerchisti ai secessionisti) lo logorerà. Ma il gioco, per l’equilibrista Bobo Maroni, vale comunque la candela. In fondo, venuto dalla sinistra interna leghista, ruppe con Bossi da destra (difendendo l’intesa con Berlusconi), rientrò al centro e lì rimase, senza fiatare, per anni: ministro del welfare e poi dell’interno. Avrebbe continuato così, aspettando di passare dal delfinato al trono altri cent’anni, dentro il patto di potere Bossi-Berlusconi, se l’incauto Cerchio magico, l’anno scorso, non avesse deciso di farlo fuori. Ha reagito e li ha fatti fuori lui. Un abile cardinale. Gli basterà per fare il papa?
da Europa Quotidiano 07.04.12
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“La strana tregua Zaia-Tosi”, di Luca Romano
Governatore e sindaco non si combattono più. E il caso Treviso insegna. È in Veneto che la Lega rischia di più dal terremoto delle dimissioni di Umberto Bossi. Rischia di più perché in quel territorio è cresciuta una schiera di amministratori locali anche di nuova generazione, il radicamento dalle campagne dei distretti industriali e dai territori marginali si è allargato anche a centri urbani importanti come Verona e Treviso e, soprattutto, dal 2010 ha un suo governatore alla guida della regione. Dei principali fattori che hanno costituito la forza della Lega, il sindacato di territorio e la rivendicazione federalista, l’antropologia della comunità perduta e dell’identità ferita e la forma carismatica di partito, il colpo devastante costituito dalle dimissioni di Bossi si riversa su questo ultimo aspetto, quello che ha unificato movimenti, leghe e lighe sul terreno della leadership politica.
Ne derivano tre scenari possibili. La deriva localista con la balcanizzazione del partito-movimento: la forza identitaria delle specifiche differenze territoriali, priva del contrappeso di un indirizzo unificante quale quello che aveva connotato la leadership carismatica di Bossi, sospinge tutti i particolarismi, e personalismi, in un itinerario che conferisce reversibilità a quello documentato da Francesco Jori: non dalla Liga alla Lega, come titolava il suo libro, ma dalla Lega a uno sventagliamento di lighe e leghe, centrifughe e rissose.
Un’altra possibilità, che presupporrebbe una maestria dirigenziale molto pronunciata da parte della schiera dei “colonnelli”, consiste nell’avviare il problema della crisi del centralismo lombardo a una soluzione con un modello federativo compiuto.
Ma è anche possibile la secessione venetista. Proprio per aver capitalizzato una rappresentanza maggiormente aderente alle caratteristiche della società veneta e delle sue peculiari dinamiche territoriali, prive di una metropoli a fungere da magnete, la Liga Veneta potrebbe accarezzare l’idea dello strappo. Nei prossimi mesi verranno riattizzati i temi “antisistema”, favoriti anche dalla saturazione dello spazio del riformismo Uno scenario in cui Manuela Dal Lago potrebbe avere un ruolo cruciale, per il suo percorso fuori dagli schemi consueti, la sua estraneità alla bolla mediatica, la sapienza con cui saprà trattare la “questione veneta”.
Non è casuale che in Veneto le fazioni pro-Zaia e pro- Tosi, che finora si sono combattute ricorrendo alle triangolazioni lùmbard, da circa un anno hanno smesso di litigare. Come pure, alla luce di quanto sta avvenendo, si capiscono di più i rimescolamenti che hanno assegnato la leadership leghista a un maroniano perfino nella Treviso che fino a poco tempo fa era considerata una falange monolitica di Umberto Bossi.
Per questa fase, sia il sindaco uscente di Verona che il governatore veneto hanno assunto un codice perfettamente identico: riconoscimento del ruolo storico di Bossi, durissima critica sulla gestione familistico amorale del suo entourage, autocritica di partito e spinta autolegittimatrice a un ricambio. Certo, sullo sfondo c’è anche il rischio dell’implosione della Lega senza Bossi, ma per ora l’ immagine che si tenta di accreditare è quella del cambio di stagione e di leadership politica. Senza rivoluzioni.
da Europa Quotidiano 07.04.12