Non è un caso che l’addio di Umberto Bossi sia arrivato appena cinque mesi dopo quello di Silvio Berlusconi. Per quanto diversi per censo e perfino per tratti antropologici, i due erano legati fra loro assai più di quanto non siano legati due semplici alleati politici. La loro avventura era evidentemente destinata ad avere un inizio e una fine comuni, e come certi vedovi inconsolabili, l’uno non poteva sopravvivere alla fine dell’altro.
Così in soli cinque mesi la loro uscita di scena cambia di colpo, e probabilmente per sempre, il profilo della destra italiana e l’intero scenario politico nazionale. Finisce un’era: quella dei «fondatori», dei partiti personali, del leaderismo e del culto del capo, dei finti congressi e delle acclamazioni. Finisce anche, si spera, la stagione delle forti contrapposizioni e delle chiamate alle armi.
Pure nell’addio i due vecchi capipopolo risultano così simili da apparire inseparabili. Per tutti e due, non s’è trattato di dimissioni: s’è trattato di una resa. Non lasciano perché ritengono sia giunta l’era del buen retiro, ma perché travolti dagli avvenimenti. Non lasciano da vincitori, ma da sconfitti. Eppure, sono sconfitti cui va riconosciuto l’onore delle armi.
Se è vero infatti che sarà la storia a separare per entrambi il grano dal loglio, già oggi si può dire che sia Berlusconi sia Bossi sembrano migliori da vinti che da vincitori. Uomo destinato (e non solo per colpa sua) a dividere, Berlusconi ha lasciato unendo: se oggi l’Italia tenta faticosamente di uscire dalla crisi con un governo di solidarietà nazionale, è anche perché il Cavaliere ha saputo, all’ultimo, tenere a freno i suoi falchi. Magari l’avrà fatto anche per interesse personale, ma l’ha fatto.
Allo stesso modo, Bossi mostra più nobiltà nel lasciare di quanta ne abbia mostrata restando – non si sa quanto consapevolmente – attaccato a un trono che era diventato la vacca da mungere da parte di una losca compagnia di giro. La vicenda umana di Bossi è segnata, come molte, da quelle leggi implacabili che si chiamano del contrappasso e dell’eterogenesi dei fini. Lui che tante volte ha urlato di voler usare come carta igienica la bandiera italiana, è stato di fatto il porta vessillo della versione più meschina della bandiera italiana: quella che, come diceva Longanesi, al centro ha la scritta «ho famiglia». Lui che organizzò due finte feste di laurea, e che fece credere alla sua prima moglie di essere medico, cade per essersi scelto un tesoriere che comprava lauree e diplomi; e per dare un futuro a un figlio che qualcuno gli faceva credere già quasi laureato.
Miserie, fragilità, debolezze. Da guardare però con misericordia nel giorno in cui il misero, il fragile e il debole cade. Per quante responsabilità possa avere avuto, suscita pietà il vecchio capo che con orgoglio parla a un collega del figlio che – crede lui – ha fatto da interprete a Berlusconi e Hillary Clinton; e che poi apprende con sgomento che il libretto universitario del suo erede non ha dei trenta ma degli spazi bianchi. Proprio perché noi non ci vergogniamo a essere italiani nel bene e nel male, non ci accodiamo a chi infierisce su un padre che va in crisi per un figlio.
Così è strana la vita: il politico del «celodurismo» cade per essere stato troppo debole in famiglia; e l’uomo che dal niente aveva messo in piedi un impero, cade per mano di mediocri cortigiani. Bossi «muore» politicamente meglio di quanto abbia vissuto anche e soprattutto perché non fugge di fronte alle proprie responsabilità, anzi se ne fa carico e arriva a pronunciare parole inaudite nel mondo della politica: «Chi sbaglia paga, qualunque cognome porti».
Altre, e ben più gravi, sono le sue colpe. Prima ancora che per i colpi della malattia e del cosiddetto cerchio magico, Bossi deve lasciare la scena per un fallimento politico. È stato grande nel trasformare l’aria del Nord in un partito da dieci per cento. Ma altrettanto grande nello sfasciare tutto: prima mettendo in un angolo le intelligenze che avrebbe potuto arruolare (la migliore, Miglio, fu messa alla porta con la sprezzante etichetta di «una scoreggia nello spazio»), poi dissipando anni e anni di governo senza mai realizzare una sola delle riforme annunciate. Se la Lega non gli sopravviverà, non sarà perché non vi può essere un altro leader dopo di lui, ma per i vent’anni di promesse non mantenute.
Anche qui, sarà la storia a rispondere. Per ora possiamo leggere gli avvenimenti solo con lo sguardo della cronaca, che ci fa immaginare per le elezioni del 2013 una destra e un quadro politico generali completamente diversi – e speriamo migliori – rispetto agli ultimi vent’anni.
La Stampa 06.04.12