Sulla modifica dell’articolo 18 è stato evitato il peggio, visto che la vicenda era iniziata in nome della bizzarra idea di ostentare ai mercati finanziari e agli investitori esteri lo «scalpo» della liberalizzazione dei licenziamenti. Il governo ha finalmente accolto i buoni consigli che gli sono stati dati, anche da queste pagine. Sui licenziamenti economici è scomparsa la formula aberrante inizialmente proposta: quella che vincolava il giudice a disporre solo la monetizzazione ove il motivo economico risultasse «inesistente». Si può dire che sul punto ha vinto la ragione. Ora infatti la disposizione è radicalmente cambiata. Oltre a prevedere un filtro sindacale, con il ricorso preventivo all’ufficio del lavoro, si reintroduce la possibilità della reintegrazione, e non solo dell’indennizzo, da parte del giudice ove risulti che il motivo economico è «manifestamente infondato», espressione da ritenersi inclusiva dell’ipotesi per cui tra il motivo economico e la scelta di quel lavoratore o lavoratrice non sussiste un nesso causale. In questo modo resta salvo il principio della reintegrazione e si mantiene la sua essenziale funzione deterrente sul piano della garanzia complessiva dei diritti in corso di svolgimento dei rapporti di lavoro, come il Pd e il suo segretario non si sono stancati di ripetere nelle scorse settimane. Logica avrebbe voluto che attribuendo al giudice la scelta tra indennizzo o reintegrazione si fosse anche abbassata la soglia dei 15 dipendenti, ormai priva di ogni vero carattere selettivo. Questo comunque è già più accettabile, per quanto nulla tolga ai due errori commessi dal governo nel corso di questa vicenda. Il primo consiste nell’aver diffuso il messaggio per cui la portata innovativa della riforma andava misurata sul grado di liberalizzazione dei licenziamenti e su uno scambio tra minore flessibilità in entrata e maggiore «flessibilità in uscita» (formula del gergo economicista che in italiano si traduce in «licenziamenti più facili»). Quando il problema principale del Paese, di fronte alla dura recessione in corso, consiste nel fatto che il lavoro scarseggia, per chi ce l’ha e rischia di perderlo e per chi lo cerca, soprattutto giovani e donne, e non lo trova, o lo trova solo precario, di cattiva qualità. L’accento andava quindi posto, al contrario, fin dall’inizio, sulle misure necessarie a riavviare la crescita, lo sviluppo compatibile. L’altro errore consiste nel non avere perseguito l’accordo con le parti sociali, anzi nell’averlo in sostanza evitato. Si dice che la concertazione è finita e che ora si pratica solo la consultazione. Non so se sia un bene. Certo è che è preferibile, specie nei momenti di maggiore difficoltà e sofferenza sociale, il consenso delle forze sociali, come accadde nel 1992-93 quando il segretario della Cgil era Bruno Trentin e il presidente del Consiglio Ciampi, piuttosto che alimentare conflitti e dissensi che, all’esito, riguardano tutti i sindacati e non solo la Cgil. Può essere che questa contrastata vicenda produca, paradossalmente, un effetto positivo: la riscoperta del valore strategico dell’unità tra i sindacati confederali. Nei prossimi giorni si potrà dare una valutazione più analitica. Al momento si può dire così: si è vinta una prima battaglia, si apre ora lo spazio per migliorare altre parti del provvedimento. Meglio questo, piuttosto che piangere poi sul latte versato.
L’Unità 05.04.12
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“Accolta l’idea del Pd”, di MARCELLO SORGI
Quando si dice che la politica è l’arte del possibile: Mario Monti ed Elsa Fornero hanno confermato ieri il compromesso raggiunto dal presidente del consiglio nel vertice con Alfano, Bersani e Casini. Il reintegro ad opera del magistrato dei lavoratori licenziati ingiustamente torna ad essere possibile in tutti e tre i casi previsti dalla riforma dell’articolo 18, compresi dunque i licenziamenti economici, e non solo, com’era stato deciso in un primo momento, per quelli discriminatori e disciplinari. Alla fine, con il placet anche del segretario del Pdl inizialmente contrario, è stata accolta la richiesta di Bersani, e adesso il disegno di legge potrà marciare spedito verso l’approvazione.
Motivi di opportunità e ragioni politiche hanno spinto Monti a un sensibile aggiustamento. Nel giro di dieci giorni, come ha ammesso Fornero, non solo la Cgil e il Pd, ma anche tutte le organizzazioni sindacali, anche quelle che inizialmente avevano dato la loro adesione, avevano fatto marcia indietro. La tensione tra governo e maggioranza si era acuita ed era giunta al livello di guardia durante l’assenza di Monti per la missione in Asia. Di qui la necessità di svelenire e rimettere il governo in carreggiata.
Se Bersani incassa quel che chiedeva, anche il governo porta all’attivo il principio che adesso, in caso di serie e riconosciute difficoltà economiche, le imprese potranno ristrutturarsi senza temere che i loro piani siano sistematicamente contraddetti dall’intervento della magistratura. Migliorano inoltre le condizioni dell’accesso al lavoro per i giovani. E tutto questo dovrebbe, secondo le previsioni del governo, sollecitare investimenti stranieri nel nostro Paese o almeno rallentare il trasferimento di risorse all’estero.
Le ragioni politiche sono maturate negli ultimi giorni anche per altre ragioni. Non c’è dubbio che lo scandalo che ha investito la Lega, da una parte, e dall’altra la svolta di Di Pietro verso una linea di rottura oltre ogni limite con Monti (ieri in Parlamento il leader di Idv è arrivato a dargli la responsabilità dei suicidi di imprenditori e pensionati), spingono Pd e Pdl ad accantonare la nostalgia delle vecchie alleanze per fare i conti fino in fondo con la realtà attuale del governo e della larga (e scomoda, per certi versi) maggioranza a tre che lo sostiene adesso. E dovrà verosimilmente sostenerlo ancora a lungo.
La Stampa 05.04.12