Fu l’autore dell’attentato contro le SS che scatenò poi la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Aveva 90 anni. Come partigiano difese sempre l’azione che la Cassazione definì «legittimo atto di guerra». Comandava il nucleo di Centocelle e in quel frangente venne interpellato da Salinari a nome
dei gap comunisti: «Te la senti?…» E il suo destino cambiò. Per noi giovani Fgci del liceo Tasso della sezione Ludovisi era semplicemente «Sasà». Sapevo, sapevamo, che era stato uno dei protagonisti dell’attentato a Via Rasella. E anche per le polemiche perenni su quella azione, avevamo timore di «chiedere», e di conoscerlo. In realtà era un uomo semplice e affabile. Che ci raccontò più volte quella giornata, nella quale lui, travestito da netturbino, accese la miccia del tritolo dentro il carretto per farlo esplodere, giusto nel mezzo del corteo armato dei 33 Ss Bozen che transitavano nella celebre via, risalendola appena svoltato l’incrocio di Via del Tritone. Sasà era così: ex combattente non pentito, moderato e saggio, piuttosto di «destra» ai nostri occhi, molto togliattiano Pci.
In realtà il personaggio era anche molto di più di quella circostanza che lo vide protagonista e di cui fu attore di primo piano, quasi per caso. Era un intellettuale aspirante medico, un ex giovane dei Guf, fascista disilluso e dissidente. Prima tentato dai trotzkisti, poi conquistato da Giorgio Amendola e Salinari. Come tanti del gruppo capitolino del Pci, fatto di giovani e men giovani Ingrao tra gli altri che ebbe un ruolo chiave nel traghettare al comunismo italiano la generazione del «lungo viaggio attraverso il fascismo». In seguito Bentivegna fu infatti saggista, polemista e storico. Tutte caratteristiche che marcheranno la sua figura di comunista romano, fino a poco prima dell’era Petroselli. E però veniva da Centocelle in quella primavera del 1943, dove comandava un nucleo partigiano. E in quel frangente fu interpellato da Carlo Salinari a nome dei gap comunisti: «te la senti?». Da allora la svolta vera, almeno nell’immagine pubblica: l’uomo dell’attentato di Via Rasella. Vale a dire: un destino inseparabilmente legato sia a quella del nemico attaccato, sia alla rappresaglia delle Ardeatine. Che la destra reazionaria, quella moderata e anche un certo revisionismo gli misero sul conto. Malgrado la medaglia al valore che gli fu elargita, malgrado i tanti processi che riconobbero che l’attentato era stata un’azione bellica e in un contesto in cui i tedeschi torturavano, deportavano, razziavano ebrei, mentre gli americani erano inchiodati ad Anzio. Già, perché come disse il Dc Taviani partigiano bianco, proprio gli anglo-americani esortavano la Resistenza romana a «rendere impossibile la vita ai tedeschi». In una città che già aveva visto numerose azioni di guerra, con i gap in prima fila contro fascisti e occupanti (e i 33 uccisi in Via Rasella non erano pacifici montanari altoatesini, bensì germanofoni volontari chiamati appositamente per schiacciare e rastrellare).
Dunque rappresaglia consumata in silenzio, con 335 vittime innocenti a fronte dei 33 Ss, e nessun invito a consegnarsi rivolto agli attentatori: la notizia infatti fu data dal Messaggero il giorno dopo. «Se lo avessimo saputo dirà Sasà li avremmo attaccati e dato il segnale della rivolta in città». E però lo abbiamo detto: nonostante l’ombra immane di quei fatti, le accuse ignobili e reiterate lungo tutto il dopoguerra, (dalla destra fino a Pannella), Sasà era sereno. Quasi scettico, disincantato, fermo nei suoi convincimementi e niente affatto risentito. Benché la sua biografia lo avesse reso bersaglio di discriminazioni anche sul piano professionale, ostacolando la sua carriera di medico.
Tutte cose queste che Bentivegna ha raccontato per filo e per segno in numerosi suoi libri, l’ultimo dei quali era stato l’autobiografia Einaudi che va dall’anno della sua nascita, 1922 a Roma, fino alle ultime polemiche mediatiche con Bruno Vespa, che aveva (in video e in uno dei suoi libri) riciclato le vecchie polemiche contro di lui per l’attentato. Per nulla settario, trovò anche il tempo per dialogare con l’ex Rsi Mazzantini, con un libro e il contributo a una fiction Tv sui «ragazzi di Salò». E rimase nel Pci fino a metà degli anni 80, uscendone contro la linea radicale dell’ultimo Berlinguer. Amendoliano, non pentito, disse sempre di non avere particolari virtù e di aver vissutio «senza fare di necessità virtù». Come nel titolo del suo ultimo e bellissimo libro.
l’Unità 03.04.12