Giovani, donne e meridionali. Sono loro a soffrire maggiormente nel mondo del lavoro. I primi hanno un tasso di occupazione timido, sceso in un anno dal 20,3 per cento al 19,4 per cento. Le donne sono in testa alla classifica di chi viene sacrificato per primo quando l’azienda è in difficoltà: basti il dato relativo al mese di febbraio, che segna 44mila lavoratrici senza occupazione. Il tasso di occupate è fermo al 46,7 per cento, solo sei mesi fa la Grecia impiegava più lavoratrici. E se la donna vive anche al Sud, allora in un caso su due (49,2 per cento) resta a casa perché non può fare altro. In attesa della riforma del mercato del lavoro, ieri l’Istat ha fornito cifre ricordando – se ce ne fosse bisogno – che l’occupazione nel nostro Paese è un problema e la disoccupazione è un dramma. Il tasso relativo a chi ha un posto di lavoro a febbraio è fermo al 56,9 per cento (+0,1 per cento sul 2010). Ma alla fine del 2011 il lavoro a tempo pieno segna un calo dello 0,8 per cento, mentre i tempi indeterminati calano dello 0,6 per cento. Una diminuzione solo in parte compensata dal contenuto incremento dei tempi determinati: più 1,8 per cento in un anno. Cresce invece il numero dei dipendenti a termine (+3,7%), che incidono sul totale degli occupati per il 10,3 per cento. Per contro, il dato di chi ha perso l’impiego tocca cifre record: la disoccupazione è al massimo dal 2004, e si attesta al 9,3 per cento, in crescita di più di un punto percentuale sul 2010. Mentre gli ultimi tre mesi del 2011 sono stati i peggiori degli anni Duemila: meno 9,6 per cento. E non può consolare il fatto che l’Italia sia appena sotto la media europea (10,8%), che sfiora il massimo degli ultimi 15 anni. Inunanno335mila persone hanno accresciuto l’esercito di chi non lavora, che in Italia conta oltre due milioni di persone (2.354 mila). Nel complesso, il mercato del lavoro nel nostro Paese è così formato: oltre ventidue milioni di italiani lavorano; più di due milioni cercano un’occupazione, mentre poco meno di 15 milioni di persone (37,2%), in salute, fra i 15 e i 64 anni, vengono definite «inattive», ovvero non lavorano e non cercano lavoro. Un dato stabile rispetto al 2010. Aquesto proposito, una recente ricerca si è concentrata sul costo dei cosiddetti «Neet», acronimo che definisce la generazione dei giovani «not in employment, education or training», ovvero non a lavoro, a scuola o in apprendistato. Questi ragazzi, che nel nostro Paese sono circa due milioni, costano al bilancio pubblico quasi 27 miliardi di euro all’anno, circa l’1,7 per cento del Pil. Un altro record che ci vede primeggiare in Europa. I costi dei Neet sono calcolati come «potenziale sprecato », non solo in termini di guadagni mancati per gli individui ma anche come costi sostenuti dallo Stato per provvedere in qualche modo ai diversi sussidi. È preoccupante il rapporto tra giovani e impiego. Un under 24 su tre non lavora. E a febbraio la baby disoccupazione ha raggiunto quota 31,9%, 4,1 punti sul 2010. In un mercato ingessato, «non c’è traccia di investimenti per lo sviluppo e l’occupazione – lamenta Ilaria Lani, responsabile per le politiche giovanili della Cgil – e non disponiamo di un sistema capace di accompagnare chi cerca il primo impiego». Il riferimento è al fatto che, secondo gli ultimi dati, solo il cinque per cento dei giovani troverebbe lavoro grazie ai centri per l’impiego. Mentre i più si affidano alla sorte e alle conoscenze. E mentre Bersani, in visita in una fabbrica, parla di cifre Istat drammatiche, la saggistica oggi registra l’uscita del libro «Se potessi avere mille euro al mese. L’Italia sottopagata » (Eleonora Voltolina per Laterza). Anche questo è un segno dei tempi.
l’Unità 03.04.12