Ci sono le cose ridicole, e ci sono le cose serie. Nella top list delle cose ridicole che abbiamo potuto leggere di recente a proposito della scuola italiana, sta la notizia secondo cui la Divina Commedia di Dante andrebbe espurgata perché contiene «stereotipi, luoghi comuni, frasi razziste, islamofobiche e antisemite». Ma allora – è stato sarcasticamente notato su queste colonne – perché non espurgare anche Boccaccio, o Shakespeare? Come a dire: i rischi del politically correct quando vuole farsi Nuova Inquisizione.
Poi ci sono le cose serie. E fra queste c’è il problema – grande come una casa – non di quello che andrebbe tolto dall’insegnamento della nostra scuola, ma di quello che andrebbe aggiunto. In altre parole, c’è il problema dei “buchi” di una didattica che fatica ad aggiornarsi sia nelle forme, sia nei contenuti. E c’è il problema – grande come una città – degli insegnanti che vanno sempre più perdendo il contatto con gli studenti. Docenti giovani o meno giovani, simpatici o antipatici, volenterosi o sfaticati, colti o ignoranti, che ai ragazzi di oggi (cioè ai nativi digitali) danno comunque l’impressione di parlare una lingua totalmente diversa dalla loro. Una lingua comprensibile, ma astrusa. Logica, ma arcaica.
Alla radice di questi problemi sta indubbiamente un deficit nella formazione degli insegnanti italiani: deficit alimentato, negli ultimi anni, da interventi legislativi che hanno penalizzato la scuola pubblica molto più di quanto l’abbiano riformata. Ma alla radice di questi problemi sta anche un’inerzia culturale degli insegnanti stessi. Le nostre scuole sono piene di professori che, quando pure non si trincerino nell’implicita routine del minimo sindacale, si arroccano dietro l’esplicito rispetto del «programma ministeriale», delle «discipline curricolari», e di quant’altro serve loro per blindare l’esistente senza compiere un singolo passo verso le frontiere del cambiamento. Eppure, nelle scuole italiane ci sono anche professori – una minoranza, ma una minoranza significativa – che hanno imboccato o stanno imboccando un cammino differente: a prescindere dalla riforma Gelmini, dalla riforma Berlinguer, da chissà quali altre riforme passate o future. Potremmo chiamarli, per semplicità, i professori dell’autoriforma: altrimenti la riforma dovrebbe avere tanti cognomi quanti sono questi insegnanti che non coltivano né la religione dell’imboscamento né quella del piagnisteo. Che non si limitano a lavoricchiare sospirando il 27 del mese, né minacciano di «togliere il disturbo» perché la scuola italiana non è più quella di una volta.
Sì: per esperienza diretta o per sentito dire, quali docenti dei figli nostri o dei figli di amici, a livello di scuola secondaria inferiore o di scuola superiore, in un liceo classico o in un istituto professionale, tutti noi sappiamo come nelle scuole italiane esistano professori di una specie particolare. Sono gli insegnanti che non fanno finta di niente. Che riconoscono eccome l’impatto epocale delle nuove tecnologie sulle modalità di trasmissione della conoscenza. Che si interrogano eccome sulla concorrenza di «agenzie educative» estranee agli ambienti della scuola tradizionale. Che si misurano quotidianamente (per fare un unico esempio) con l’evoluzione materiale e immateriale del concetto di “classico”. Che si pongono eccome, insomma, il problema di un digital divide culturale e antropologico oltreché generazionale. E che cercano di rimediare a questa separazione – di colmare il vuoto fra professori e studenti – attraverso una didattica innovativa nelle forme come nei contenuti.
Il Sole 24 Ore 02.04.12